la Repubblica, 7 febbraio 2024
Elogio di Virdimura che curava i poveri nel Medioevo
Una “medichessa” nella Catania medioevale flagellata dalla peste e dalla carestia, che sceglie di aiutare i reietti, riuscendo a convincere la commissione reale a rilasciarle lalicentia curandi, l’abilitazione a curare e ad avere allievi (e allieve) medici. Si intitola Virdimura, come la leggendaria protagonista, l’ultimo romanzo di Simona Lo Iacono: siciliana, da tempo affianca alla carriera di magistrato la scrittura, con una predilezione per le storie al femminile (tra i suoi libri,Il morso eLa tigre di Noto ). Nel nuovo romanzo, Lo Iacono segue Virdimura dall’infanzia alla maturità, tratteggiando la storia di una ribelle per amor di sapienza.
Le tracce della storia di Virdimura si trovano su un antico documento. Di che si tratta?
«Io vivo a Siracusa, ma faccio il magistrato a Catania. Di Virdimura non sapevo nulla. Una collega più giovane, di cui curavo il tirocinio, mi ha segnalato la sua storia. Una pergamena conservata in Archivio di Stato a Palermo getta luce su questa donna, un’ebrea catanese che nel XIV secolo fu dottoressaante litteram. Il documento è eccezionale; c’è traccia di Virdimura nella memoria popolare, tanto che a Catania c’è via Virdimura. Ma il documento attesta non solo che visse davvero, ma anche cosa fece nella sua vita».
In cosa è speciale Virdimura?
«Il verdetto della commissione di giudici e di dottori presieduta da Dienchele spiega che Virdimurajudeaguadagna lalicentia curandidopo un esame abilitativo prima rimesso soltanto agli uomini; gli ebrei ottenevano lalicentia curandi,manonla facultas agendi, perché non potevano frequentare l’università. La pergamena contiene anche alcune scarne notizie biografiche: Virdimura era mogliedi un dottore, tale Pasquale de Medico, e chiese di poter curare soprattutto i più indigenti. Questa notazione mi ha fatto impazzire, mi ha fatto decidere di scrivere di lei».
Come si è documentata?
«Su più piani. Prima di tutto sulla città, perché la Catania di oggi non somiglia per nulla a quella del XIV secolo, chiusa da mura e con sei porte: non esiste più il quartiere ebraico, diviso in Judeca Suprana e
Judeca Suttana; era attraversato da un fiume, oggi interrato, che portava febbri malariche. Esiste invece ancora il Castello Ursino, dove la stessa Virdimura e suo padre, il medico Uria, vengono rinchiusi. Ed esiste il bastione degli infetti, dove erano relegati i lebbrosi e gli affetti da altre malattie contagiose o deformità. In questa Catania tardo medioevale si muovevano banchieri, mercanti, gabellieri, e la città era un coacervo di etnie e di religioni. Un’umanità varia che Virdimura, suo marito e suo padre Uria accettano: curano tutti senza distinzione di credo. Per loro, ebrei, la cura è una mitzv à,un dovere religioso».
Che Sicilia è quella del ’300?
«Un’epoca di eventi drammatici, in cui le donne vivono in un contesto di emarginazione che è insiemesociale e culturale. L’interdetto della chiesa contro Federico III d’Aragona del 1321, ossia l’impossibilità per i cristiani di ricevere i sacramenti, dura 14 anni: le donne non potevano sposarsi e rimanevano nubili, una condizione che implicava grande debolezza.
Moltissime vennero mandate nei conventi, aumentarono le violenze.
Nel 1333 ci fu una grande carestia e nel novembre del 1347 la peste arrivò a Catania. Ciò nonostante non vedo il Medioevo come un periodo buio, ma come un’epoca in cui uomini e donne dalle doti sorprendenti preparano la venuta del Rinascimento».
In tutte queste vicissitudini, cosa ne è della sua protagonista?
«Accoglie le donne violentate, rifiutate, costrette a prostituirsi nel periodo dell’interdetto. E quando arriva la peste, cerca di capire il meccanismo di propagazione del morbo ma non viene creduta».
Una donna chiaroveggente. C’è in atto una riscoperta dell’apporto delle donne alle arti e alle scienze medioevali. Ci sono somiglianze tra Virdimura e Trotula, la medichessa di Salerno dell’XI secolo?
«Conosciamo ovviamente il libro che è attribuito a Trotula, ma non abbiamo notizie biografiche certe su di lei. C’erano del resto molte donne che praticavano l’arte medica; lo facevano come levatrici e ginecologhe, spesso venivano dafamiglie di medici e imparavano in famiglia, senza titolo abilitativo. La differenza invece è che Virdimura si sottopone all’esame per la licenza e lo fa non solo per sé, ma per le sue studentesse. La sua vicenda è emblematica del destino delle donne del tempo: chi emergeva non era riconosciuta, rischiava di essere perseguitata. La cura, soprattutto delle malattie femminili era nelle mani delle donne. In Sicilia incombeva l’Inquisizione e le guaritrici erano spesso tacciate di stregoneria. Insomma, dovevano muoversi ai limiti di un mondo pericolosissimo».
Un mondo molto lontano dal nostro, che tuttavia in alcune dinamiche non è poi così distante.
«Ci sono similitudini con l’epoca che abbiamo appena vissuto: la paura dilagante, le notizie false e i fraintendimenti, l’incapacità di accettare la morte e la malattia, un intero mondo in crisi».
In questo clima di isolamento, l’ospedale di Virdimura è un esperimento di vita collettiva.
«Nel Medioevo esistevano gliospedali confraternali, posti spesso ai crocicchi delle strade, che avevano anche il compito di amministrare la viabilità.
L’ospedale che racconto nel romanzo è invece centrato sulla dignità del paziente, sulla sua storia. Come scrive Uria nel testamento per la figlia, “curali a partire dai loro lutti”».
La storia di una donna che si emancipa nonostante le difficoltà è molto moderna.
«Le personalità che mi interessano sono quelle che da una torsione, da un travaglio, un dolore, un lutto, sanno trarre vitalità. Molte sono donne, perché storicamente alle donne sono state negate molte opportunità. Ciò che mi affascina non è tanto la resistenza ma proprio la capacità di cambiare di segno agli eventi, di affrancarsi da un destino scritto, che è la cosa più violenta che può accadere a un essere umano.
Raccontare le figure dimenticate è l’unico modo per dare loro una seconda opportunità. La letteratura, credo, è anche un atto riparatorio».
“Lei, suo marito e suo padre accettavano tutti i pazienti, senza distinzione di credo Per loro, ebrei, era una mitzvà, un dovere religioso”