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 2024  febbraio 07 Mercoledì calendario

L’angoscia inglese sul corpo del re


Il cancro diagnosticato a Carlo III ha colpito il Regno Unito come una folgore, evocando precedenti paurosi come quello di suo nonno, Giorgio VI, morto nel 1952 di un male analogo.
L’auspicio del primo ministro Rishi Sunak, che ha augurato al monarca una pronta guarigione e si è detto certo «che tornerà al massimo delle sue forze in pochissimo tempo», dietro la compostezza cerimoniale del linguaggio istituzionale lascia affiorare l’inquietudine di uno scongiuro dinastico. È vero che per il momento Carlo mantiene i suoi State Duties, i doveri di stato. Infatti non sono stati delegati ai consiglieri previsti dal Regency Act, l’Atto di Reggenza del 1937, poi aggiornato nel 2022, che designa le figure destinate a sostituire il re in caso di infermità. Una strategia comunicativa per allontanare lo spettro dell’abdicazione.
Ma anche la grande preoccupazione espressa senza troppi giri di parole dal presidente Usa Joe Biden circa le condizioni di salute del suo principale alleato, riflette quel clima di insidiosa oscurità che circonda da sempre la corona. Sospesa tra la precarietà del re come persona e l’immortalità del regno come istituzione. Una tensione irrimediabile, che ha qualcosa di intrinsecamente tragico. Nessuno ha saputo riassumerlo meglio di William Shakespeare che nel Riccardo II dice che “entro la vuota corona che cinge le tempie mortali di un re, la morte insedia la sua corte”. E del resto, l’apprensione con cui il paese segue le vicende del figlio di Elisabetta lascia trasparire dietro la cronaca le sequenze di un dramma antico quanto la monarchia. Sempre in bilico tra la perennità dell’istituzione e la possibilità della sua fine. Che resta la ferita inguaribile del potere, costitutivamente sospeso tra ordine e caos, come su una lama di coltello. Perché in ogni sistema politico, dai più antichi fino a quelli moderni, il capo, e nessuno è capo quanto lo è un re, è di fatto l’incarnazione della legge. Lex est in pectore regis,
la legge sta nel petto del re, dicevano i giuristi medievali che hanno contribuito a costruire i simboli e gli archetipi su cui ancora si fonda la nostra idea di politica.
Ecco perché la fragilità conclamata del corpo regale diventa un display della fragilità del corpo sociale.
Evocando l’ombra paurosa del vuoto di potere che minaccia la società dall’interno. Per questo il grande drammaturgo Eugene Ionesco diceva che i re dovrebbero essere immortali ma, visto che questo attributo è solo di Dio, i sovrani terreni devono accontentarsi di una immortalità provvisoria.
Per sciogliere questo nodo insolubile, i teologi del Medioevo sostenevano che il sovrano, a differenza dei comuni mortali, possiede due corpi, quello fisico e quello politico. A immagine e somiglianza di Cristo che ha due nature, umana e divina. Per cui la creatura terrena nasce, cresce, si ammala e muore. Ma il potere non può, non deve seguirne la sorte senza mettere a rischio la salute del corpo collettivo. Per questo, quando il monarca si ammalava alla corte d’Inghilterra e di Francia si costruiva un suo simulacro di legno che veniva investito dei suoi poteri e riverito come una persona in carne ed ossa. Fino alla guarigione.
Che ripristinava quell’equilibrio energetico tra facoltà fisiche e sociali messo in discussione dalla malattia. Facendo tornare il re «al massimo delle sue forze», come ha detto il premier inglese soppesando le parole con l’acutezza di un teologo medievale.