Corriere della Sera, 7 febbraio 2024
La carriera lampo di Gabriele Visco
Roma Il 9 febbraio scorso, «dopo molti incontri e sollecitazioni», avviene quello che il gip Maria Gaspari definisce «un momento centrale della vicenda» in indagine, ossia la consegna dall’imprenditore Claudio Favellato a Gabriele Visco di «una cartellina azzurra contenente una somma imprecisata di denaro». L’appuntamento è al Bar Manfrè in via dei Barbieri e, ripercorrendone la fase preparatoria, il giudice traccia per il figlio dell’ex ministro un profilo che non sembra interpretabile: «Il tenore delle conversazioni attesta la spregiudicatezza di Visco che, oltre a pretendere sfacciatamente e senza sosta utilità, chiede anche telefoni da poter utilizzare senza il timore di essere intercettati, manifestando così piena consapevolezza della gravità e illiceità della sua condotta». Dopo l’incontro è Pierluigi Fioretti a rassicurare Favellato: «Gabriele m’ha chiamato, è rimasto contento».
Cinquantuno anni, da 16 a Invitalia, Visco è allora all’apice della sua carriera (arrivava da ruoli di responsabilità nelle sedi Telecom di San Francisco e Venezia), poi interrotta due mesi dopo bruscamente dal licenziamento deciso dalla partecipata del ministero di via XX Settembre, guidato in passato da suo padre a poche centinaia di metri di distanza dalla sede di via Calabria. Talmente veloce era stata la sua ascesa da superare di slancio non solo le polemiche per la sua assunzione «inopportuna» ma anche quelle per l’appartamento in via Monte della Farina nel centro di Roma, dietro Torre Argentina, acquistato all’asta nel 2011 dal patrimonio del Comune, guidato all’epoca da Gianni Alemanno: 155 metri quadrati a 915 mila euro. «Ho solo presentato l’offerta migliore», liquidò il caso allora.
Con gli imprenditori che avrebbe favorito, Gabriele Visco era esplicito su cosa chiedeva in cambio: «Io lì ho un po’ di tensione, quindi se potete fa du telefonate a qualcuno che alza il telefono.. chiama il mio amministratore.. “Guardate, Gabriele è bravo”.. perché sennò io non riesco a occuparmi... a fa quello che interessa». Sapeva essere diretto sul significato di una gara aggiustata: «Questi sono arrivati secondi... erano ultimi... Mo ce chiedi di assumerlo, però la cosa del figlio glie vale molto più de prima». Sapeva essere rigido nelle sue posizioni di fronte alla lista di imprenditori sottopostagli da Favellato: «Visto che non è lui, io non posso fa credito».
Oltre ai telefoni intestati a cittadini stranieri ignari, il dirigente aveva sviluppato anche altre accortezze: dalla richiesta di un’iPhone 14 da girare al responsabile di un progetto, ma in realtà finito in uso a sua moglie, ai soldi chiamati in codice «pasta». Fino all’escamotage del conto corrente intestato all’avvocato Luca Leone, il complice al quale faceva avere consulenze fittizie, da cui attingeva a piene mani per la rata della sua Bmw, gli acquisti online, le spese alimentari e farmaceutiche, le cene al ristorante e finanche le parcelle per il veterinario del suo cane. Proprio il fedele quadrupede finirà involontariamente per tradirlo, perché la password di accesso al conto, rintracciata dai finanzieri del Nucleo valutario, era un unione del suo nome con quello dell’animale: Loulougabriele1.