Corriere della Sera, 7 febbraio 2024
Intervista a Sigfrido Ranucci
Nome impegnativo, Sigfrido.
«Ci si aspetta uno alto, biondo e con gli occhi azzurri e invece arrivo io. L’ho ripreso dal mio nonno paterno, i suoi avevano la passione per Wagner. Durante il Ventennio glielo italianizzarono in Sigilfredo, non lo poteva soffrire. Nonna Uliana, quando litigavano, lo chiamava così per farlo arrabbiare. Quando sono nato, andò di persona all’anagrafe per controllare che fosse scritto giusto».
Vincenzo De Luca la sfotte.
«Mi ha definito: “Il giornalista dal nome nibelungico”. Che poi forse siamo pure parenti. Mia madre è di Salerno come lui, il cognome da nubile di nonna era De Luca, quindi è probabile».
I compagni di classe, per fare prima, come la chiamavano? Sig? Siggy? Frido?
«A scuola e a casa ero soltanto Lello. Vengo dalla Garbatella, mica solo la Meloni, eh. Che poi, proprio di fronte a noi, abitava un criminale incallito, detto Lello pure lui. A un certo punto mi accorsi che gli amici mi isolavano, nessuno mi cercava più. “Mamma mi ha ordinato di starti lontano, dice che sei un tipo poco raccomandabile, che spacci”, mi spiegò uno di loro. Ovviamente mi avevano scambiato per quell’altro».
Non voleva andare all’asilo.
«Piangevo disperato perché non sopportavo che il maestro punisse i miei compagnucci. Ai tempi ti mettevano in ginocchio sulla ghiaia. Così nonno Sigfrido, invece che a scuola, mi portava al bar e mi comprava il maritozzo con la panna e la Coca-Cola. Tornavo a casa con il fiocco immacolato. Solo che nonna, che aveva il terrore dei pidocchi, ogni giorno mi passava un pettine a denti stretti nei capelli, un male».
Il costume da Superman.
«Me lo regalò zia Rosa, avevo 5 anni. Non me lo toglievo più. Lo portai fino ai 12, con tutto che ero cresciuto e ingrassato. Era sbrindellato e pieno di buchi, però mi sentivo un supereroe».
Che voleva fare da grande?
«Il medico. Passione affinata coi nonni pieni di acciacchi. “Tutte queste pasticche che prendo, lo sapranno poi dove devono andare?”, si chiedeva nonno Sigfrido. Mia madre, insegnante, mi faceva imparare a memoria le poesie e ancora oggi in tv parlo a braccio, senza gobbo».
Era timido.
«Lo sono tuttora. Durante la ricreazione restavo al banco a braccia conserte. A un mio compleanno, per sfuggire agli auguri e ai baci dei parenti, mi rifugiai sotto al tavolo, papà dovette minacciarmi per farmi uscire».
Ha copiato all’esame di maturità.
«Studiavo al liceo scientifico Borromini, c’era pure Agostino Di Bartolomei. Ero in ansia per la prova di matematica. Con altri compagni abbiamo studiato un piano. Con una scusa, qualcuno doveva portare fuori la traccia, consegnarla al bidello, che l’avrebbe data a un insegnante di ripetizioni, che l’avrebbe risolta per noi. Poi il bidello avrebbe infilato il foglietto con la soluzione nei panini al salame della ricreazione».
Funzionò?
«Il bidello cominciò dal fondo e quando arrivò al mio banco le rosette erano finite».
Suo padre era un sottoufficiale della Guardia di Finanza «che mi ha insegnato i valori del bene comune, l’importanza di seguire le regole della giustizia, di affrontare le persone in maniera leale. Per noi era un eroe in tuta da motociclista». Così lo racconta nel libro «La scelta», in uscita oggi per Bompiani.
«Un grande sportivo. Quando avevo 6 anni mi comprò un paio di guantoni da pugile, ogni sera lo aspettavo per la sfida. Si metteva in ginocchio sul tappeto della cameretta, il nostro ring. In corridoio aveva attaccato una sbarra per le trazioni. “Quando ne farai una più di me ti darò le chiavi di casa”. Non l’ho mai battuto».
Come ha festeggiato i 18 anni?
«Sa che non me lo ricordo? Che tristezza».
Con le ragazze come se la cavava?
«Mi ero messo in testa che per conquistarle dovevo suonare la chitarra. Ero stonato. Mi esercitavo in spiaggia strimpellando la stessa canzone: Alla fiera dell’Est di Branduardi. La vicina di ombrellone sbottò con mia madre: “Suo figlio è tanto carino, mo però basta, ci ha rotto”».
Bravo a tennis.
«Specie sottorete. Poi mi sono slogato una spalla sei volte, giocando a calcio e in moto».
Grazie al tennis però entrò in Rai.
«Davo lezioni a una signora che lavorava come segretaria da un pezzo grosso di Viale Mazzini, all’inizio non lo sapevo. Veniva tutti i giorni, la facevo pagare ogni tanto. Allora scrivevo per qualche rivista e per Paese Sera, dove non mi hanno mai pagato, ancora avanzo 5 milioni di lire. “Ti piacerebbe lavorare in tv?”, mi chiese un giorno la mia allieva. “Come no”. Cominciai come assistente al programma a La domenica sul 3, fu utilissimo per imparare tutti i meccanismi di produzione e montaggio».
L’origami.
«Sul treno per Milano, la mia compagna di scompartimento era una signora silenziosa. Io invece stavo sempre al telefono, a parlare di querele e beghe legali. Poco prima di arrivare prese il menù del ristorante, lo piegò non so quante volte, poi me lo porse. Era un airone. “Lei deve volare alto, come le aquile, che quando camminano saltellano e incespicano, ma quando volano, vedono nel cielo ciò che nessuno ha mai visto”. Aveva intuito le mie fragilità».
Alla Garbatella
A scuola ero per tutti Lello. «Mamma ha detto di non frequentarti, dice che spacci», sentii dire Mi avevano scambiato per un criminale incallito che abitava davanti a me
Primo scoop: Fallujah.
«Per RaiNews24. Rivelai al mondo che in Iraq gli Stati Uniti avevano usato il fosforo bianco. L’dea mi venne parlando con un vagabondo di Torvaianica, un ex costruttore edile soprannominato “Vedo-Vedo” perché passava ore davanti al mare a scrutare l’orizzonte con le mani sulla fronte. Uno di quei personaggi che, in qualche modo, hanno dato una svolta alla mia professione. Mi spiegò la differenza tra vedere e osservare, l’importanza di non fermarsi all’apparenza. Mi colpì. Tornato in redazione, mi andai a rivedere le immagini trasmesse dalla Rai. Scoprii in archivio un filmato intitolato “Pioggia di fuoco su Fallujah”. Fermai l’immagine. Non era fuoco, era fosforo bianco».
L’incontro con Milena Gabanelli.
«Mi chiamò da un numero anonimo. “Pronto caro, sono la Milena, ti devo parlare, vorrei che lavorassi con me”». La imita bene. «Andai alquanto intimorito. Mi commissionò la prima inchiesta dell’anno. Era appena esploso lo scandalo Telecom-Pirelli, c’erano di mezzo servizi segreti, Cia. Non ci dormivo la notte. Le mandai un pezzo. Mi richiamò. “Bello, però non ci ho capito niente”. Andò in onda con parecchie modifiche e fece il 14 per cento di share».
Il tassista informatore.
«Ero a Parma, stavo cercando di ricostruire la storia di Tanzi e del crac della Parmalat. Il tassista aveva ascoltato in silenzio le mie telefonate. A un tratto mi disse: “Voi mica avete detto tutto sul tesoro di Tanzi. Pochi giorni prima di essere arrestato, ha portato via dalla sua villa oggetti e opere d’arte per milioni di euro”. “E lei come lo sa?”. “Ero la sua guardia del corpo”. “Si fermi subito e mi racconti tutto”».
E ci credo.
«Mi dice che nella collezione c’erano dei Monet, dei Manet, qualche Van Gogh. Mi metto sulle tracce del tesoro. Interpello tutti i critici d’arte della zona. Finché non ne trovo una che ha davvero visto quei quadri. Trasmetto il servizio, Tanzi smentisce. L’indomani telefona un tizio arrabbiatissimo: un mediatore incaricato di vendere proprio quelle opere. “Per colpa vostra è saltato tutto”. Dovevo decidere se fare lo scoop o avvisare la Guardia di Finanza. Scelsi la seconda. In 48 ore il tesoro fu recuperato, dopo 7 anni».
Nel 2017 ha preso il posto di Milena.
«Mi disse: “Ti lascio Report e l’insonnia”. Dormo poco. Dall’una alle 4. I primi anni andavo in Rai già alle 5 per rivedere i testi. Lo faccio ancora, anche cinque volte. Sono esigente, devo, anche perché ci capitano tante “polpette avvelenate”. Credevo lo fosse anche il video di Renzi e Mancini in autogrill. Su quella faccenda il pm ha appena chiesto l’archiviazione per Report».
Le manca?
«Sulla porta della redazione c’è ancora l’etichetta col suo nome, guai a chi la tocca».
A quante querele è arrivato?
«A 178, tra querele e richieste di risarcimento danni, sono il più indagato d’Italia».
Preoccupato?
«Tranquillo, perché sono maniacale nel rispetto di tre principi base del mio lavoro: verità, interesse pubblico e continenza verbale».
E comunque, mal che vada, paga la Rai.
«Insomma. Paga le spese legali. Se perdi una causa per dolo o colpa grave, si rivale su di te».
Diventa amico di qualche sua “vittima”?
«Spesso per loro scatta la sindrome di Stoccolma. Si affezionano. È successo con Lavitola, Verdini, Corallo. Cercano di fare amicizia con me. Quando ho preso la guida di Report, Corallo mi mandò una scatola di cannoli siciliani».
Lei sgarra mai? Parcheggia in doppia fila?
«Solo una volta, il tempo di comprare l’acqua minerale. La signora rimasta bloccata mi riconobbe: “Da lei non me lo aspettavo”».
I suoi tre figli ormai grandi la seguono?
«Sono i miei peggiori critici. Non gli è piaciuto il servizio sul padre di Giorgia Meloni, dicono che non c’era l’interesse pubblico. Quando ero sotto attacco, mi chiedevano di lasciare. “Non la smetteranno finché non ti avranno distrutto”. “Se mollo ora, gli do ragione”. E sono rimasto».
E quando erano piccoli?
«Ai tempi di Fallujah, Giordano mi chiese: “Papà, perché ti occupi di queste cose?”. “E di cosa dovrei occuparmi?”. “Dei tuoi figli che crescono senza padre”. Un cazzotto allo stomaco».
Ha mai chiesto un autografo?
«A Zeman, il mio mito».
Già, è tifoso romanista.
Lo scoop in taxi
Ero a Parma per cercare di ricostruire il crac di Tanzi. Il tassista mi disse: «Ha fatto sparire oggetti e opere d’arte per milioni di euro. Come lo so? Ero la sua guardia del corpo»
«Anche se disamorato del calcio, dopo le mie stesse inchieste. Francesco Totti mi ha regalato una maglia col numero 10 e il mio nome. Quando faccio il 10 di share la ripubblico sui social».