Corriere della Sera, 7 febbraio 2024
L’arte dopo la parola scritta
Si intitola Post Scriptum, dopo la scrittura. Proprio qui va cercata la chiave del racconto complesso e intrigante della mostra. Ricordiamo il dialogo costante con le parole e le immagini dei quotidiani che ha accompagnato la ricerca di Gianluigi Colin negli ultimi due decenni. Erano parole isolate in diverse performance, erano parole che affioravano da fogli appallottolati, oppure trappole di parole appese a parete, o ancora parole-immagini che scavavano nelle mitologie del classico in una memorabile mostra al Foro romano presentata da Vincenzo Trione; erano parole che affioravano dalle immagini delle copertine ripensate, ricomposte, in parte rimosse lavorando con le fotocopiatrici a colori sperimentate in happening indimenticabili proposti da New York a Buenos Aires a Milano. Il grado zero delle parole sono stati i sudari che ancora ritroviamo agli inizi di questa personale ma con dentro un nuovo linguaggio, una diversa ricerca.
Colin dice: «La mostra è stata costruita nel rispetto massimo del “contenuto” di questi lavori, opere che contengono la memoria della vita e del sistema della comunicazione. Una memoria di immagini e parole qui dissolta, che diventa metafora del nostro tempo. Per questa ragione ho realizzato opere di una forza volutamente drammatica: striature di neri, di rossi cupi, di macchie diffuse di inchiostri neri». Così si delinea la consapevolezza di un passaggio ulteriore rispetto alla grandiosa messa in scena della mostra della Galleria Volumnia, nella chiesa di Sant’Agostino a Piacenza, trapassata di strisce, di «sudari» sospesi e con altri sudari proposti in una dimensione senza tempo, di una purezza quasi assoluta, deposti, è questo il termine corretto, sugli altari della chiesa. Echi di quell’esposizione li ritroviamo in alcune grandi opere della prima sala al piano terreno di questa mostra ma con una densità, un incombente peso delle righe che reggevano parole e figure ora rimosse e che propongono una riflessione ulteriore su tutta la precedente ricerca di Colin. Un tempo, certo, vi era la critica dei media, ma forse adesso l’artista scava dentro sé stesso per cogliere una dimensione diversa.
Il primo piano della rassegna, oltre all’ingresso del piano terra, appare proporre un’iniziale risposta ma anche suggerire una riflessione ulteriore rispetto alle opere precedenti. Ecco sette dipinti di media dimensione ciascuno dei quali potrebbe essere ed è forse nato per essere visto isolato ma che è unito in un grande insieme dove domina un comune orizzonte, come a proporre la negazione di un paesaggio nel momento in cui essa appare affermata. Così, ben distinta, in alto, ecco la zona più chiara e, in basso, gli affondi della griglia appesantita di colori forti, neri, rossi, gialli e dove le righe si sgranano con feroce densità. È come se Colin ripensasse a Mark Rothko rileggendo in modo drammatico le contemplate, stratificate misure dei suoi orizzonti. Se osserviamo bene, nella scelta di questa sequenza c’è la consapevolezza di altre ricerche, ben altrimenti violente rispetto a Rothko, e penso a Robert Rauschenberg e a Gerhard Richter la cui tensione, il cui amaro impegno narrativo deve avere pesato nella memoria di Colin.
Ma è al secondo piano della Galleria Building che forse troviamo la chiave di questa rassegna e del momento importante della ricerca dell’artista. E voglio lasciare ancora la parola a Colin: «Questa terza sala presenta un nuovo ciclo di lavori, quelli più recenti, composti da lastre tipografiche prelevate da pagine di quotidiani e con la sovrapposizione di materiali di pulitura delle rotative, densi di inchiostri molto colorati o di neri saturi». Le cornici, la cassetta che racchiude le opere, lungi dal proporsi come raffinate riflessioni sul dipingere, evocazioni concettuali di un perduto racconto, sembrano dirci ben altro. Sono drappi rossastri quasi sanguinolenti, sono stracci nerastri strigilati di blu, di verdi, di bruni, sono tracce di uccisioni, sono reliquari di un presente che incombe e che l’artista viene misu-rando quasi come uno scarto, un passo ulteriore rispetto alla sua precedente ricerca.
Scrive il curatore della mostra, Bruno Corà: «Quella di Gianluigi Colin è oggi una delle proposizioni visive linguisticamente più originali della scena artistica contemporanea, poiché essa si manifesta formalmente e si confronta con una realtà del quotidiano, del transitorio, dell’instabile, cioè con quanto della vita e dei fatti che in essa avvengono, tradotti in comunicazione mediatica, si eclissa scomparendo dalla memoria con una rapidità inaudita, mai percepita prima d’ora». Riflettiamo sul percorso di Colin, su un pittore la cui ricchezza di produzione e il cui impegno muovono certamente dalla critica dei media di Vance Packard, di Max Horkheimer, di Theodor Adorno, di Herbert Marcuse, ma anche dall’ironia sottile di Umberto Eco e dalla consapevolezza, che è stata anche amicizia, di Gillo Dorfles.
Ebbene, al di là della critica dei media è stata di Colin la scoperta del grado zero delle parole/immagini, alla lettera cancellate, quindi rimosse. E adesso Colin, in questa importante mostra, propone un passaggio ulteriore: i frammenti delle parole/immagini sono scomparsi per lasciare spazio a resti drammaticamente emergenti, frammenti di corpi, sanguinosi reperti che Colin depone come reliquie di un terribile presente.