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 2024  febbraio 06 Martedì calendario

Le leggende di trebisonda

Quando – nel 401 a.C. – Ciro il giovane fu sconfitto (e perse la vita) nella battaglia di Cunassa contro Artaserse II per il trono di Persia, diecimila mercenari greci si misero in moto per tornarsene in patria. La lunga estenuante marcia da Babilonia verso il Ponto Eusino (l’attuale Mar Nero), raccontata nell’Anabasi di Senofonte, li condusse – dopo infinite sofferenze – a Trapezunte, colonia di Sinope, un agglomerato urbano destinato a prendere di nome, nel Medioevo, di Trebisonda. E a divenire la capitale di un distretto dell’Impero bizantino. La storia di questa città, diventata – vedremo perché – sinonimo di confusione, è raccontata da Tommaso Braccini in Trebisonda. L’impero incantato tra storia e leggenda, pubblicato da Salerno editrice. Tracce importanti di Trebisonda le abbiamo già trovate nella Storia dell’impero bizantino (Einaudi) di Georg Ostrogorsky; in Figure bizantine (Einaudi) di Charles Diehl. E in La città bizantina (Laterza) di Ennio Concina.
Fondata nell’VIII secolo a.C. da mercanti greci provenienti da Mileto, la città ebbe un’intensa vita proprio in età bizantina. Soprattutto negli oltre due secoli e mezzo (1204-1461) in cui – come racconta Judith Herrin in Bisanzio. Storia straordinaria di un impero millenario (Corbaccio) – «fu molto di più di una semplice città Stato e mantenne il proprio governo indipendente». Un piccolo impero fondato dai due fratelli Comneni che successivamente, scrive ancora Herrin, «ad opera dei sovrani Arta e Nicea si arricchì di edifici, leggi, agricoltura e commerci, promosse lo sviluppo e patrocinò l’arte in nuove chiese e monasteri».
La città aveva alle spalle oltre duemila anni, ma il suo destino cambiò nell’aprile del 1204 allorché crociati e veneziani espugnarono Costantinopoli: i fratelli Alessio e Davide Comneni approfittarono dell’occasione per far propria Trebisonda. La storia che ne seguì fu raccontata per grandi linee da Sergei Pavlovic Karpov in L’impero di Trebisonda, Venezia, Genova e Roma 1204-1461: rapporti politici, diplomatici e commerciali (il Veltro).
Un anno particolarissimo di questa lunga storia fu il 1246. Trentasei mesi prima le orde mongole guidate da Bayju, in una battaglia ai confini orientali dell’Anatolia, avevano spazzato via l’apparentemente fortissimo esercito del sultano di Rum e avevano dilagato nell’intera area. Imperatore di Trebisonda era all’epoca Manuele I Gran Comneno nipote di Alessio I che – secondo alcune notizie ancor oggi non verificabili – prese la decisione di recarsi a Karakorum per fare atto di vassallaggio alla corte del Gran Khan Güyük, nipote a sua volta di Gengis Khan. Se così andarono le cose, spiega Braccini, il gesto di sottomissione «per quanto umiliante» fu «un ottimo investimento». Perché?
Lo spiega bene Marie Favereau in L’Orda. Come i mongoli cambiarono il mondo (Einaudi). Gli asiatici erano riusciti a entrare con facilità persino nel sistema mercantile islamico. Assoldarono consiglieri musulmani e realizzarono monete identificate subito dai destinatari come «uno strumento di pagamento accettabile». Dopodiché, riferisce Favereau, «inviarono soltanto pochi uomini a supervisionare la riscossione delle tasse e fecero affidamento sulle élite locali per convincere città e villaggi ostili a obbedire». Dispensarono il clero dalla tassa principale ed estesero l’esenzione ai religiosi cristiani, musulmani, buddhisti e taoisti. E, successivamente, a militari e letterati. Gli stessi criteri furono applicati ai russi di Kiev, inaugurando «un lungo intreccio sociale, culturale e politico» con il quale «dimostrarono di saper incorporare i popoli dominati in molti modi diversi».
Una volta entrata nell’orbita mongola, prosegue Braccini, Trebisonda conobbe un periodo di notevole prosperità. La nuova superpotenza dell’area, sempre secondo Braccini, «non aveva infatti alcun interesse a intromettersi negli affari del piccolo impero pontico, purché quest’ultimo assicurasse la praticabilità delle rotte commerciali che portavano dal Mar Nero verso l’interno dell’Asia». E pagasse i contributi richiesti. Beninteso nelle forme ed entro i limiti di cui si è detto poc’anzi.
Trebisonda si rivelò così un affare speciale per i mongoli, tanto più che, dopo la distruzione di Bagdad nel 1258, i flussi di commercio che passavano dal Ponto ebbero un forte incremento e gli stessi Gran Comneni videro aumentare gradualmente le entrate dovute a dazi e gabelle. Manuele, puntualizza l’autore, poté coniare in gran numero apprezzatissime monete d’argento, note come «manuelati», che recavano su una faccia l’effigie del sovrano e sull’altra quella di Sant’Eugenio. Grazie a questi maggiori introiti, tra l’altro, lo stesso imperatore riuscì a finanziare la costruzione del monastero e della chiesa di Santa Sofia. Che sorse a un paio di chilometri ad ovest della città, «una distanza che nei due secoli successivi sarebbe stata spesso percorsa da solenni processioni». Fu inoltre l’ultima città bizantina ad essere conquistata, nel 1461, dai turchi ottomani (Costantinopoli era caduta nel 1453). Forse anche a questo deve la sua fama.
Fama che inizierà a diffondersi ampiamente nel secolo della sua caduta, il XV. Un «encomio» della città lo fece un importantissimo personaggio della storia della Chiesa, il grande umanista, filologo e filosofo Bessarione che a Trebisonda era nato nel 1403, per poi trasferirsi e Costantinopoli, in Egitto, ed essere successivamente nominato arcivescovo di Nicea. In seguito, Bessarione avrebbe raggiunto la penisola italiana per essere nominato cardinale nel 1439 da Papa Eugenio IV. Ma, più che per merito di Bessarione, il mito di Trebisonda si svilupperà grazie ai poemi cavallereschi.
Trebisonda che non era mai stata una potenza nel mondo reale, nota Karpov, lo divenne nella fantasia e nell’immaginazione. Non per i suoi secoli d’oro, quelli in cui fu un impero. La sua «grande stagione» iniziò nel 1204, allorché venne «anacronisticamente calata» nel mondo di quattrocento anni prima, quello dei paladini di Carlo Magno. Un poema anonimo, Trabisonda, racconta la storia del conflitto tra Rinaldo e Gano di Maganza, il quale riesce a far cadere Rinaldo in disgrazia agli occhi del sovrano. Quest’ultimo lo esilia, appunto, nella caotica città sul Mar Nero. Di qui nasce la prima associazione tra Trebisonda e storie di lotte interminabili. Il poema ebbe un grande successo e fece la fortuna dei cantastorie: solo nella prima metà del Cinquecento se ne contano otto edizioni, anche illustrate. E viene ristampato fino alla fine del Settecento.
A cavallo tra Quattro e Cinquecento, Francesco Cieco da Ferrara dà alle stampe il Mambriano dove compare la figura burlesca di Pinamonte, imperatore di Trebisonda, rappresentato come un vecchio ridicolo. Perdutamente invaghito di Bradamante, sorella di Rinaldo, scrive Braccini, «il monarca si atteggia a giovanotto partecipando a una danza con esiti imbarazzanti e subisce scherzi feroci mentre si sottopone a cimenti oltre la sua portata nel tentativo di conquistarla».
La città si ripresenta, sia pur fugacemente, anche nell’Orlando innamorato di Matteo Maria Boiardo. All’inizio del Seicento Trebisonda torna poi nel Don Chisciotte di Miguel de Cervantes come «miraggio orientale al centro di trame cervellotiche e impossibili».
Ma è l’autore del Bertoldo, Giulio Cesare Croce, che ha dato il colpo di grazia a Trebisonda. Nel 1592, Croce dà alle stampe un poemetto intitolato La barca de’ ruinati che parte per Trabisonda in cui, riassume Braccini, «l’antica capitale diviene un immaginario luogo di passaggio sulla rotta di falliti e spiantatati» verso l’«isola del pentimento». Qui avrebbero potuto «stillarsi il cervello» in un apposito alambicco e «liberarsi di quella pazzia» che li aveva indotti a scialacquare le proprie sostanze. Croce forse era suggestionato dall’esistenza nella sua Bologna di un vicolo ribattezzato Trebisonda trasformatosi nel tempo in un malfamato immondezzaio. Lo stesso Croce tornava sul nome della città orientale in un’altra delle sue opere, Le piacevoli e ridicolose simplicità di Bertoldino, in cui la citava alla stregua di una maleodorante discarica: «una volta là nelle parti della Trabisonda, dove si sbarcano le scorze delle anguille affumate …».
Giuseppe Balsamo, noto come Cagliostro, nel suo Mémoire del 1786 lasciò intendere di essere nato da una relazione clandestina tra il Gran Maestro dell’Ordine di Malta, Manuel Pinto de Fonseca (1741-1773), e una non meglio identificata principessa di Trebisonda, trovata dagli uomini del nobile maltese a bordo di una nave turca. E la «Principessa di Trebisonda» ricomparve nell’opera buffa musicata nel 1869 da Jacques Offenbach.
Qualche anno prima, Laura Junot, duchessa di Abrantès, musa e amante di Honoré de Balzac, «nel tentativo», scrive Braccini, «di rimettere in sesto la propria traballante situazione economica, aveva pubblicato, anche lei, le proprie Mémoires in cui pretendeva di essere discendente di Davide Gran Comneno. Napoleone aveva sprezzantemente liquidato quei ricordi asserendo che lo zio per cui sarebbe transitata la «pretesa nobiltà» della Junot, Demetrio Stefanopoli, era solo un «contadino corso» che si era voluto dar arie da «uno degli ultimi imperatori d’Oriente». La duchessa di Arbantès gli aveva risposto affermando che il titolo era stato riconosciuto da Luigi XVI e aveva sostenuto che lo stesso Bonaparte aveva ascendenze tra i Gran Comneni. Napoleone s’era fatto beffe della rivelazione. Ma anni dopo nell’agiografico Livre d’or de la famille Bonaparte si sosteneva che il vincitore di Austerlitz discendeva, secondo «incontestabili prove storiche» sia dalla famiglia Comnena sia, più direttamente da quella Paleologa e, per il tramite di esse, da Costantino il Grande.
La leggenda di Trebisonda era ormai diventata una realtà. La sua caduta era non solo avvenuta otto anni dopo quella traumatica di Costantinopoli ma la nomea dell’«ultimo Impero greco» – che pure non era mai stato una superpotenza – fu tale da suggestionare Foscolo, Kavafis, d’Annunzio. Quest’ultimo diede un grande contributo a far entrare nella storia (quantomeno quella della letteratura) le fantasie sui presunti Comneni scampati al massacro del 1463, ad opera dei turchi. Suo è il personaggio della Comnena nella tragedia La gloria (1899) «ambientata in una Roma contemporanea, agitata da torbide e spietate lotte politiche». L’origine della protagonista, portata sulle scene da Eleonora Duse, viene descritta già nelle prime scene da alcuni giovani che ne sono allo stesso tempo intimoriti e affascinati. Prese per buone le memorie della duchessa di Arbantès e la genealogia napoleonica, Gabriele d’Annunzio così definisce colei che chiama «l’imperatrice di Trebisonda»: «Discendenza incontestabile da quel David Comneno ultimo imperatore di Trebisonda fatto morire da Maometto II; discendenza riconosciuta con lettere patenti di Luigi XVI a Demetrio Comneno… quando, passata la Corsica alla Francia, fu confiscato il dominio che i genovesi avevano concesso a un Comneno senza terra e al suo stuolo di fuorusciti greci».
Si può dire che uno solo tra i grandi viaggiatori e scrittori – che oltretutto visitò personalmente la città – non ne rimase ammaliato. Stiamo parlando di Marco Polo, il quale si fermò a Trebisonda alla fine del Duecento. Ma nel Milione, pur ricco di dettagli su ogni cosa, Marco Polo dedicò alla città quella che Braccini definisce una «fugace menzione». Forse perché, come si desume da alcuni documenti, lì, lui e suo zio Matteo furono truffati, taglieggiati e derubati di una parte abbondante delle ricchezze che portavano con sé dalla corte del Gran Khan. Un’ipotesi. Nient’altro che una supposizione. Ma molto convincente.