Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2024  febbraio 05 Lunedì calendario

Intervista a Marina Massironi

Ha iniziato la carriera alla fermata dell’autobus. «Ebbene sì! – ride l’attrice Marina Massironi —. Quando uscivo dal liceo con le compagne di scuola, mi divertivo a farle ridere, ma lo facevo anche in classe, durante gli intervalli tra una lezione e l’altra: mi piaceva fare la buffoncella, ci riuscivo molto bene... E non mi limitavo a questo. Erano gli anni delle radio libere e un tappezziere, che lavorava a San Vittore Olona, un paesino vicino a Legnano, la “metropoli” dove sono nata e dove vivevo, aveva aperto un’emittente privata. Andavo lì quasi tutti i giorni e davo sfogo alle mie bizzarre invenzioni di comici personaggi: era una radio piccolissima e credo che i probabili ascoltatori mi sentissero nel raggio di un solo chilometro quadrato, ma sentivo dentro di me che, se mi mettevo una maschera, potevo essere accettata, scoprivo la mia capacità comunicativa».
È stata la sua gavetta?
«Sì, ma la mia vera passione era il teatro drammatico, non comico. La prima folgorazione l’ho avuta da bambina, nel teatrino dell’oratorio a Legnano, assistendo alla rappresentazione di Anna dei miracoli. Era il mio esordio da spettatrice di uno spettacolo di prosa, ne ricordo ogni minimo particolare. Da quel momento ho cominciato a pensare di calcare le tavole del palcoscenico e infatti, in seguito, mi sono iscritta alla scuola di recitazione creata dalla compagnia degli Atecnici a Busto Arsizio, dove ho iniziato a recitare di tutto, dal teatro ragazzi a Pirandello».
Quindi non solo testi drammatici...
«Un po’ di tutto, la vena comica c’era e, in fondo, non esiste una reale differenza tra far ridere e far piangere, l’importante è saper trasmettere al pubblico delle emozioni. E pensare che ero una bambina timida, introversa, ma il teatro è magia e ho capito molto presto che poteva darmi degli scossoni forti per superare la timidezza: un alleato».
L’inizio vero e proprio della professione?
«È stato duro e frastagliato. Mi ero diplomata al liceo linguistico e, per mantenermi e continuare gli studi, ero stata assunta da una ditta che produceva tomaie per le calzature dove, conoscendo un po’ di lingue straniere, dovevo gestire i clienti esteri. Di giorno lavoravo in ufficio, la sera frequentavo la scuola di recitazione. Un andirivieni durato solo un anno perché, quando mi è stato proposto il primo contratto da attrice, nonostante lo stipendiuccio irrisorio, mi sono subito licenziata dal posto fisso... fu grande la preoccupazione dei miei genitori, papà Terenzio faceva l’operaio, mamma Angela casalinga e si sono straniti».
L’incontro con Giacomo Poretti, suo primo marito?
«È avvenuto nella scuola di Busto Arsizio e con lui abbiamo fatto tanti provini per vari spettacoli, ma non venivamo mai scritturati. Ricordo un provino anche al Piccolo di Milano: siamo stati buttati sul palco per recitare non rammento cosa, davanti a una platea vuota. Si vedeva solo una lucetta in fondo alla sala, non un volto umano, poi una voce sconosciuta, al termine della nostra performance, ci liquidò dicendo: grazie, vi faremo sapere... e non ne abbiamo saputo più nulla».
Però non vi siete arresi...
«Assolutamente no! Ci siamo inventati di tutto, abbiamo creato il duo Hansel&Strudel, esibendoci nei cabaret, nei piano bar, nelle pizzerie, nelle discoteche... Facevamo spettacoli per bambini negli asili e, dopo la messinscena, venivamo invitati a pranzo insieme ai piccoli scolari: ci sedevamo su sedie piccolissime, davanti a tavolini bassissimi, davvero divertente. E non solo: ci esibivamo persino nei supermercati».
Addirittura?
«Al microfono facevamo delle promozioni in offerta, per esempio: la settimana del maiale, la giornata della trippa, il pomeriggio del salmone... Quindi, ci inventavamo dei quiz per i clienti che venivano nella nostra postazione e, quelli che indovinavano la risposta giusta, venivano premiati con dei piccoli gadget. Era una sorta di animazione... Poi sono iniziate le serate con Aldo e Giovanni».
Era nato il Trio?
«In pratica sì, ma il Trio, nato per amicizia, era costituito da tre maschi e solo in un secondo momento abbiamo deciso il mio definitivo coinvolgimento, entrando nel cast fisso. Inizialmente ero quella che, nel Trio, andava e veniva... parallelamente ero impegnata anche in altri progetti: con loro mi dedicavo alla comicità, poi andavo a recitare La peste di Camus. Una vera e propria schizofrenia, usando corde farsesche, drammatiche, politiche, grottesche...».

Si è mai pentita di aver, in seguito, lasciato definitivamente il Trio?
«No, anche perché è stata una separazione consensuale, così come lo era stata quella dal marito Giacomo, con il quale siamo sempre rimasti in ottimi rapporti. Dopo aver interpretato, anche al cinema, la moglie o la fidanzata di Aldo, poi di Giovanni e di Giacomo, ho finito il giro e ho imboccato un altro percorso, con altri film e altri registi. Però la cosa curiosa – aggiunge – è che, a furia di lavorare con loro tre, la gente mi fermava per strada, chiedendomi se ero la moglie di Aldo, Giovanni e Giacomo! Dovevo spiegare che non ero trigama».
Come le venne in mente di fare la presentatrice nella gag dei Bulgari, con l’occhio che si apriva e si chiudeva?
«Quelle serate erano un’improvvisazione continua. Loro facevano i folli numeri circensi da improbabili prestigiatori dell’Est. Io dovevo trovare un ruolo che ribaltava la figura della classica presentatrice spigliata, sorridente, accattivante... Allora mi sono ispirata a un mio problemino personale».
Quale?
«Quando mi trucco un occhio, l’altro lo chiudo completamente e il mio fidanzato dell’epoca mi disse: perché non fai la presentatrice con l’occhio che si apre e si chiude? Il difetto si è trasformato in una comica virtù, diventando un tormentone...».

Incidenti curiosi quando facevate teatro?
«Innumerevoli. Una volta, durante le repliche di uno spettacolo, Aldo si fa male con un chiodo in camerino e gli viene fasciata una mano. Ma quando torna a casa, il suo cane gli morde l’altra mano... e nei giorni seguenti dovette recitare con entrambe le mani fasciate! Mentre Giacomo una sera, dietro le quinte, si scontra con Aldo e si è rotto il naso...».
Tra le varie esperienze, una parentesi importante con Dario Fo.
«Ho avuto la fortuna di averlo come autore e regista, per la sua commedia Sotto paga, non si paga!, un mese intero a stretto contatto. Mi incantava la sua fanciullezza, la freschezza, l’energia che trasmetteva, nonostante non fosse più un ragazzo: era come un bambino felice in teatro, con una resistenza incredibile. Non smetteva mai di lavorare e, quando eravamo stremati, lo pregavamo di fare una pausa. Nel periodo in cui partimmo per la tournée, Dario ci mandava regolarmente fax quotidiani, per aggiornare via via il finale della rappresentazione, in funzione della cronaca politica del momento. Se per esempio c’era un politico che aveva combinato qualcosa, ci inviava il testo aggiornato: ogni sera recitavamo una conclusione dell’ultima ora».
Questo lavoro comincia a pesarle?
«Mi pesa stare tanto tempo lontano da casa, più vado avanti nell’età e più mi dispiace essere sempre in giro per le tournée. Oltretutto, da circa 16 anni, con mio marito (Paolo Cananzi, ndr) abbiamo deciso di vivere in campagna, in un piccolo paesino che nessuno conosce, Poggio Torriana, in provincia di Rimini, che non è tanto facile da raggiungere con i mezzi pubblici: non esiste un treno diretto e devo organizzarmi soltanto con la macchina. L’unica cosa che alleggerisce il senso di responsabilità, è non avere figli, di conseguenza faccio meno danni, mi sento meno colpevole per le mie assenze».
Perché questa scelta campagnola, diciamo, un po’ scomoda?
«Mio marito è riminese e quando anni fa andammo in vacanza in Australia, entrammo in stretto contatto con la bellezza della natura: decidemmo di compiere una scelta drastica, per avvicinarci all’incanto di un paesaggio remoto, nel verde e nella leggerezza...».
Si augura una vita piena di leggerezza, di risate?
«Spero proprio di sì! E la auguro a chiunque, anche se capisco che i tempi attuali non sono propizi alla risata, c’è ben poco da ridere in giro. Però la risata è salvifica: ti fa superare l’ansia, il dolore di una perdita, ti dà la forza per andare avanti. D’altronde, sono nata in una famiglia allegra: a casa mia mancavano spesso i soldi per fare la spesa, mangiavamo carne o prosciutto una volta a settimana, ma la risata non mancava mai. L’importante è saper guardare oltre il problema, perché la rinascita è accessibile a tutti. Magari basta essere disponibili all’incontro fortuito con persone nuove, e scopri all’improvviso che puoi pensare in un modo diverso».
Ora, in palcoscenico, è tra i protagonisti de «Il malloppo» di Joe Orton...
«È una commedia nerissima, dove una rapina si sovrappone a un funerale: due ladri inesperti decidono di svaligiare una banca, collocata accanto a un’impresa di pompe funebri, e sono costretti a nascondere la refurtiva dentro la bara della signora morta, di cui io sono stata l’infermiera furba e ambiziosa, personaggio molto diverso da me che sono una pippa... lascio immaginare i comici risvolti...».
Sconfitte e vittorie?
«Sono un tipo ottimista e tendo a rimuovere le sconfitte, che possono trasformarsi in una crescita umana o professionale. Le vittorie? Essere riuscita a fare questo lavoro gratificante, che adoro. Vedo tante persone che, purtroppo, sono costrette a svolgere, per necessità economiche, un mestiere che, pur non rispettando le loro passioni, non possono cambiare. Io sono fortunatissima».