La Stampa, 5 febbraio 2024
Il pnto sulle intercettazioni
C’è grande confusione sotto il cielo di Roma su uno dei temi più dibattuti del mondo della giustizia: le intercettazioni. Fronte divisivo per eccellenza ancora di più degli altri che pure hanno un peso nell’economia dei rapporti tra l’esecutivo e il mondo delle toghe. Più della trascrizione o meno dei nomi di terze persone che parlano al telefono con gli indagati che – parola del ministro Carlo Nordio – «rovinano vite intere senza razionalità giuridica», più dell’abolizione dell’abuso d’ufficio, contestazione penale “nemica” dei sindaci e dei pubblici amministratori rientrante – sempre copyright Nordio – in un sistema di reati contro la pubblica amministrazione «ormai obsoleto» non foss’altro perché le intercettazioni incidono sulla maggioranza delle inchieste non su una singola condotta di reato. In questo quadro di progressiva distanza tra esecutivo e toghe una cosa è certa: alla ventilata ipotesi del ministro di razionalizzare le spese per questo strumento di indagine («il suo utilizzo è eccessivo, sproporzionato, nel numero e nei costi rispetto ai risultati. E la sua spesa sfugge a ogni controllo perché le procure non hanno un budget e anche su questo interverremo») c’è il muro dei dirigenti delle principali procure italiane, investigatori di prim’ordine e dell’associazione nazionale magistrati. Temi statistici, di merito investigativo e giuridico si fondono in una resistenza convinta, contenuta nei termini. Ma decisa nei toni.
E a poco sono servite, perlomeno nell’ottica di rasserenare i capi degli uffici giudiziari – le supposte garanzie che nulla sarebbe cambiato «sui reati di mafia e terrorismo e per altre condotte di certa gravità». Perché qui la partita è molto più ampia. «Queste due categorie sono abbastanza vaghe – ragiona il presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia – perché investigativamente radicano da reati fine per i quali non si comprende la casistica del ventilato taglio». Nicola Gratteri, procuratore di Napoli rincara la dose: «Sappiamo ogni giorno, perché emerge nelle indagini che portiamo avanti, che ascoltando i mafiosi finiamo per sentire anche pubblici amministratori, professionisti e anche politici. Se si esclude la possibilità, ad esempio, di utilizzare il Trojan (un virus informatico inoculato nello smartphone che permette di ascoltare) per reati come corruzione, concussione e peculato è ovvio che si configura una limitazione rilevante. Molte volte partendo da queste condotte si arriva alla mafia e viceversa». Sui costi lamentati dal ministro: «Un anno e mezzo fa a Catanzaro abbiamo fatto un listino prezzi con il quale abbiamo abbassato la spesa per le intercettazioni del 50%. A questo listino si sono prima adeguate le procure di Napoli e Milano e il 15 dicembre scorso il ministero della giustizia ha fatto entrare in vigore un listino delle intercettazioni con gli stessi standard di costi. Ogni anno in Italia si spendono 200 milioni e il ministro dice che sono troppi ma basta guardare a quanto torna nelle casse dello Stato con sequestri e confische».
Ed effettivamente i numeri sono il primo solco che scava il fossato tra le parti. Il tema del tetto alla spesa, di un ipotetico e fumoso budget da imporre alle procure è percepito dai capi degli uffici giudiziari come confine ideale (ma anche pratico) invalicabile. Dice Santalucia a La Stampa che «con quest’idea del budget il potere esecutivo interferisce con l’azione giudiziaria. È a ben vedere una forma surrettizia per introdurre una dipendenza della magistratura dalle scelte dell’esecutivo. Le inchieste realizzate grazie – anche – alle intercettazioni generano un beneficio all’erario in generale ma anche ai ministeri della Giustizia e dell’Interno. Il processo è dunque anche un fattore di ricchezza, ma il ministro sembra quasi legato a un’idea da superare e cioè quella che la giustizia sia solamente un fattore di spesa». A Napoli, ad esempio, la spesa complessiva nel 2023 per effettuare intercettazioni è di 5,89 milioni ma il valore di beni mobili e immobili sequestrati è di 197,9 milioni. A Reggio Calabria, nella procura guidata dal magistrato Giovanni Bombardieri spesi 7,9 milioni, sequestrati ( e confiscati) beni e contanti per 825 milioni. A Milano (spesa circa 10 milioni, sono stati una trentina negli ultimi 3 anni) e Torino (3,5) si contano sequestri per centinaia di milioni. E poi ci sarebbe da discutere su quante tonnellate di droga vengono intercettate e distrutte (decine all’anno) con conseguente mancato ingresso nella società e relativo valore di attenuazione del danno. Un parametro incalcolabile. A Palermo dove insistono indagini complesse e articolate (per esempio quella, tra le tante, sulla latitanza – che segue all’arresto – di Matteo Messina Denaro) le captazioni informatiche sono costate 30,47 milioni ma alla voce “sequestri” il jackpot segna 322,1 milioni. Il procuratore Maurizio De Lucia (come già detto all’inaugurazione dell’anno giudiziario una settimana fa) parte proprio dalla cattura dell’ultimo degli stragisti dei Corleonesi avvenuta a Palermo poco più di un anno fa, per raccontare come a fronte «di un apparente grande massa di denaro, solo nel corso delle perquisizioni effettuate (a casa del boss ndr) nel gennaio 2023 sono stati sequestrati 500 mila euro in gioielli e 300 mila in contanti: somme subito confluite nel fondo unico della giustizia (Fug)». Per De Lucia «è dunque necessario difendere gli strumenti normativi che abbiamo e che, a mio avviso, sono irrinunciabili e mi riferisco alle intercettazioni: è certamente vero che hanno un costo ma i risultati in termini investigativi dello strumento mi sembrano evidenti».
A chiudere la questione “costi” ci pensa Giuseppe Cascini procuratore aggiunto di Roma. «Escludo possa esserci un problema di eccesso di spesa. C’è stato un periodo, anni fa, in cui ogni procura aveva le sue regole e le sue prassi; furono creati dei listini prezzi fatti dai singoli uffici giudiziari che trattavano direttamente con le ditte. Oggi si è arrivati a una drastica riduzione con prezzi prestabiliti e costi definiti». Per Cascini il fronte è quello legato ai reati contro la pubblica amministrazione «sui quali – dice – c’è una particolare attenzione del dibattito politico perché la preoccupazione principale, in questi casi, è che le intercettazioni portino ad acquisire informazioni e notizie, anche riservate e anche imbarazzanti, nei confronti di persone estranee al reato, ma in questo settore sono l’unico strumento investigativo possibile in quanto si tratta di fenomeni che per definizione sono occulti». Sintetizzando «è il rischio dello sputtanamento per soggetti estranei al reato, e quindi è una preoccupazione comprensibile». Dibattito vecchio, secondo il magistrato, «di 15 anni» perché «non si tiene abbastanza conto degli interventi già fatti, da ultimo, con le riforme Bonafede-Orlando con le quali è stato creato un archivio riservato, nel quale vengono custodite tutte le intercettazioni. Le parti del processo possono solo ascoltarle, ma non ottenerne copia. Entrano nel processo solo quelle che il giudice, sentite le parti, ritiene rilevanti per l’accertamento del reato. Secondo la mia esperienza questa riforma funziona è ha eliminato i rischi di cui parlavamo». Per la serie: tanto rumore per nulla. —