la Repubblica, 5 febbraio 2024
Nel cervellone del Dna “Qui incastriamo criminali ma ignoriamo i loro delitti”
Per il criminale è come un’ombra. Gli si incolla addosso la prima volta che un chiavistello si chiude alle sue spalle e un agente gli preleva un campione di Dna dalla bocca. Il suo profilo genetico da quel momento lo accompagnerà sulla scena di ogni nuovo delitto. Sarà proprio quel profilo, la sua ombra, a farne il nome e denunciarlo. Di continuo, infatti, il server della Banca dati nazionale del Dna compie un giro di ronda. Confronta i profili genetici ottenuti dall’analisi dei reperti biologici raccolti di fresco sulle scene dei delitti con i profili che conserva in pancia, quelli dei criminali già arrestati. E, dove può, li accoppia.
Capita così che il Sovrintendente tecnico della Polizia penitenziaria Alfonso Apicella, arrivato al lavoro, inserisca il badge nel computer e si ritrovi fra le mani i nomi – in realtà vede solo codici – dei possibili colpevoli di crimini in Italia e all’estero. «Sono una quindicina al giorno, più una manciata da oltre confine».
«Il Laboratorio centrale per la Banca dati nazionale del Dna ha iniziato a raccogliere campioni nel 2016. Ne aggiunge più di cento al giorno ed è vicino ai 100mila» racconta la direttrice Daniela Caputo, primo dirigente della Penitenziaria. Omicidi, stupratori e rapinatori all’arresto devono lasciare un tampone con saliva e mucosa della bocca. «I reati che prevedono il prelievo sono elencati in una legge del 2009» prosegue Caputo. Per 30 o 40 anni, a seconda della gravità del delitto, il profilo resterà associato ai pregiudicati. Solo una piena assoluzione permette di uscire dall’archivio.
Finora sono stati 3.100 i crimini risolti, o meglio le corrispondenze tra il Dna della scena del delitto e quello della Banca dati, che si trova a Roma e dipende dal Dipartimento Amministrazione Penitenziaria (Dap) del ministero della Giustizia). Il 43% sono furti, il 23% rapine, il 10% omicidi, il 5% stupri e il 3% tentati omicidi. «Trattiamo campioni anonimi. Noi vediamo un codice», precisa Caputo, prima direttrice proveniente dalla Penitenziaria, dopo una serie di predecessori non in divisa.
«Verifichiamo se c’è un match, cioè se il campione che il Laboratorio ha inserito in Banca e quello della scena del delitto coincidono» prosegue Enrica Ottaviani, dirigente aggiunta della Penitenziaria, biologa. «Ma non conosciamo nulla del crimine. Né abbiamo modo di seguire l’iter processuale». Per biologi e informatici che lavorano qui, è un cruccio non sapere la fine del giallo per il quale ci si è affannati.
Subito dopo l’arresto di Matteo Messina Denaro, ad esempio, al Laboratorio è arrivato un campione da analizzare con procedura d’urgenza. Tutti hanno avuto lo stesso pensiero, ma a nessuno ha saputo l’esito del proprio lavoro. «Lo scopriamo qualche volta dai giornali». Dagli archivi emerge Mario Palma, 81 anni, massacrato a Napoli lo scorso novembre con 92 coltellate. Le indagini stavano prendendo una pista diversa, poi una traccia di sangue ha combaciato con il Dna di un giovane registrato nella Banca dati: il nipote.
Nel 2020 a Milano è finito in carcere l’uomo che 16 anni prima aveva lasciato traccia di sé sul luogo di uno stupro. Ronzando, una notte, il server lo ha incastrato. A Roma lo stesso anno è stato arrestato un uomo che nel 2001 a Verona aveva accoltellato il 70enne Antonio Schiesaro. C’è voluto tempo, ma alla fine i fili del Dna si sono stretti attorno a lui. Nel 2023, dopo 26 anni, la Banca dati ha pescato il terzo assassino del gioielliere di Brescia Carlo Mortilli: nel frattempo aveva commesso un altro crimine. Ecco perché dopo l’arrestochi più ha da temere più fa resistenza al tampone che sfrega leguance.
L’ombra del Dna ha inseguito poi l’autore della strage di Corinaldo: nel 2018 il peperoncino spruzzato in una discoteca affollata causò la morte di 6 persone. Un ragazzo, pregiudicatoper furti in discoteca, avevalasciato frammenti di pelle sul pulsante dello spray. Match presto fatto. A volte il Dna dipana matasse che nessun giallista avrebbe immaginato. Nel 2020 Gaetano Tripodi morì in carcere: era all’ergastolo per aver decapitato la moglie a Roma. Il Dna prelevato dal cadavere risultò uguale a quello di un duplice delitto: madre e figlia uccise nel ‘98 sulla spiaggia di Rosolina Mare, nel Polesine.
Sull’affidabilità di quella che è chiamata la «prova regina» ormai c’è una sola parola: «Certezza», dice Caputo. È un’altra epoca rispetto alle analisi a tappeto del 2010 per il delitto di Yara Gambirasio, o ai reperti tolti e poi rimessi al loro posto del caso Meredith nel 2007. Siamo lontani poi dai metodi statunitensi, dove si sfrutta il Dna raccolto privatamente da chi ama curiosare fra gli antenati. E dove forzando la scienza si è usato il Dna per disegnare l’identikit di un killer. «Da noi il test si ripete due volte con kit di ditte diverse», dice Ilenia Pietrangeli, dirigente aggiunta della Penitenziaria, biologa.«Del Dna analizziamo 26 punti precsi, nello 0,2% del genoma che differenzia una persona dall’altra. Sono lociche variano molto tra individui, ma non danno informazioni su malattie o altri dati sensibili. Solo i gemelli monozigoti hanno profili uguali. Lì ci affidiamo alle impronte digitali».
La sede del Laboratorio è stretta tra i rami del carcere di Rebibbia e le aule bunker del tribunale. È un bunker anche lei, con mura e cancelli di 4 metri. «La copia di ogni profilo è in una cassaforte a prova d’incendio, inondazione e terremoto» spiega il Commissario capo tecnico Carlo Zotti, informatico. «Violare questo posto è davvero difficile». Quasi come liberarsi della propria ombra.