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 2024  febbraio 05 Lunedì calendario

I segreti di Marco Polo


A un certo punto messer Marco «levato dalla tavola andò in una delle camere, e portò fuori le tre veste di panno grosso consumate con le quali erano venuti a casa; e quivi con alcuni coltelli taglienti cominciarono a discucir alcuni orli e cuciture doppie, e cavar fuori gioie preciosissime in gran quantità, cioè rubini, safiri, carboni, diamanti e smeraldi, che in cadauna di dette vesti erano stati cuciti con molto artificio, e in maniera ch’alcuno non si averia potuto imaginare che ivi fussero state…». Figuratevi lo stupore dei parenti alla vista di quell’immenso tesoro che Marco Polo, il padre Niccolò e lo zio Matteo avevano riportato a Venezia da quel viaggio interminabile nel Catai durato ventiquattro anni, dal 1271 al 1295, e tornati a casa irriconoscibili come Ulisse «dapoi venti anni tornato da Troia in Itaca» perché «sconci del viaggio e per le molte fatiche e travagli dell’animo, tutti tramutati nella effigie» e quasi dimentichi del parlare veneziano e vestiti miseramente «di panni grossi, al modo de’ Tartari».
Come potevano immaginare che proprio in quegli stracci si celasse tanto ben di Dio? Eppure così andò, scriverà due secoli e mezzo dopo l’immaginifico Giovanni Battista Ramusio, nel suo monumentale Delle navigationi et viaggi: «Perché al partir dal gran Cane, tutte le ricchezze ch’egli aveva loro donate cambiarono in tanti rubini, smeraldi e altre gioie, sapendo certo che, s’altrimente avessero fatto, per sí lungo, difficile ed estremo cammino non saria mai stato possibile che seco avessero potuto portare tanto oro».
C’è da fidarsi d’un racconto così? Mica tanto, rispondono oggi gli storici. Un po’ perché lo stesso Marco Polo dettò a Rustichello da Pisa, nelle carceri genovesi dove erano entrambi prigionieri, d’esser rientrato dalla Cina fino all’attuale Iran via mare con ben 14 navi («de le quali ciascuna avea quattro alberi e molto andavano a 12 vele») messe a disposizione dal Gran Khan che aveva affidato a lui, al padre e allo zio una principessa inviata in sposa al sovrano dell’allora khanato mongolo di Persia. Un po’ perché viaggiavano con «tavole d’oro» dove l’imperatore ordinava che i «tre latini fossero serviti e ’norati e (fosse) dato loro ciò che bisognava per tutta sua terra». Lasciapassare rinnovato dal signore persiano fino a Trebisonda sul Mar Nero, da dove i Polo potevano contare sulla rete di porti controllati da Venezia e sulle mude, i convogli scortati da navi della Serenissima che garantivano la sicurezza dei traffici tra la capitale lagunare e l’Oriente.
Tutte cose sulle quali il Milione, generosissimo di strabilianti racconti sulle immense fortune del Gran Khan e i suoi palazzi e le sue battute di caccia cogli elefanti e le donne «belle, gioiose e sollazzevoli», scrive così poco da non far pensare affatto a un itinerario rischiosissimo tra mille pericoli per celare ai predoni un «così grande e infinito tesoro di gioie e pietre preciose». Men che meno che possa esser vera la storia appresa «di orecchia in orecchia» due secoli dopo da Marco Barbaro secondo cui una di quelle vesti miserabili ma piene di diamanti nelle cuciture fu donata per errore a un accattone e miracolosamente ritrovata nei dintorni di Rialto.
A farla corta: occhio alle bufale senza riscontri documentari. Comprese quelle nate nella scia di decine di traduzioni diverse del Milione (quella in cinese, scrive la sinologa Renata Pisu, arrivò solo nel 1912, in «quattro versioni incomplete da testi in inglese e in francese, fino a quando, nel 1937, Zhang Xingang diede alle stampe la sua versione basata sull’edizione curata, finalmente, da Luigi Foscolo Benedetto del 1928») e via via accumulate nel corso di sette secoli dalla morte del grande viaggiatore. A partire, ovvio, dalle rivendicazioni nazionaliste di Zagabria (su tutti l’ex presidente Franjo Tudjman: «Marko era croato di stirpe e di nascita») ancora oggi ripetute in base a una presunta «casa natale» vantata dai depliant turistici a Curzola, in Dalmazia, nonostante lo storico Alvise Zorzi (come hanno ricordato il figlio Pieralvise e Alessandro Marzo Magno) abbia dimostrato oltre quarant’anni fa la presenza della famiglia Polo a Venezia fin dal 971. Quasi tre secoli prima della nascita del viaggiatore.
Che Marco, Niccolò e Matteo fossero tornati ricchi dal loro interminabile viaggio nel «Catai», comunque, è vero. E lo dimostra tra gli altri, al di là del racconto del Ramusio sulla famiglia (che «nella contrà di s. Zuanne Grisostomo fece fabbricare un palazzo assai bello segondo quel tempo et loro dal volgo erano detti de ca’ milion perché la fama era che avessero gioie per valuta di un milion de ducati»), uno dei documenti approfonditi dagli studiosi per il Codice Diplomatico Poliano che sarà messo on line dall’Istituto Veneto di Scienze, Lettere e Arti. Vale a dire l’Inventario dei beni mobili lasciati da Marco Polo. Scritto dopo la morte del navigatore dal genero, Marco Bragadin, che dell’autore del Milione aveva sposato la primogenita Fantina.
Che viso avesse la donna, bionda o mora, bella o brutta, non lo sappiamo: del resto non esiste un solo ritratto del padre, se non inventato magari un secolo dopo come in una miniatura del Milione conservata a Parigi o addirittura nel Seicento. Sappiamo però da quell’inventario studiato parola per parola dall’archivista Alessandra Schiavon, dal paleografo Antonio Ciaralli e dallo storico della lingua Vittorio Formentin (il glossario finale del saggio è ricco di rimandi a ogni sorta di idioma euroasiatico) che Fantina doveva esser una donna forte. Tenace. Decisa a far valer le sue ragioni. Tanto da sfidare non solo i costumi dell’epoca che davano di solito la precedenza ai maschi anche se eredi illegittimi, ma gli stessi Procuradori di San Marco che, come riassume la Treccani, sovrintendevano «all’esecuzione dei testamenti e alla custodia dei beni».
E proprio un testamento era in ballo: quello appunto di Marco Polo che il 9 gennaio 1324, prima di morire, aveva lasciato tutto ciò che aveva alle figlie, Fantina, Bellela e Moreta «in tres partes equaliter, ut tres erant sorores». È a quello che Fantina, anche a difesa dei figli, si attacca quarant’anni dopo, nel 1366, impugnando il testamento del marito. Ma come, il fedìfrago che l’ha scaricata a Venezia per andarsene a Candia e fare altri figli con tre diverse schiave è morto lasciando soldi e beni a chiese, monasteri e a tutti i figli, legittimi o illegittimi, alla pari? Ah, no, passi per la dote pagata a suo tempo per le nozze col nobiluomo, ma l’eredità di Marco Polo no.
E trascina innanzi ai giudici i gestori dell’eredità, cioè i Procuradori, chiedendo la restituzione di tutto ciò che c’era nel testamento paterno. E giù una lista infinita: tappeti, broccati, drappi e gioielli d’oro e pietre preziose e «arnesie, massericie, suppellectilia et alia» dei quali l’uomo si era impadronito facendone poi «quicquid voluit». Su tutto la mitica «tola (tavola) 1 d’oro granda de comandamento». L’inestimabile lasciapassare del Gran Khan.
Fu durissima, la sfida. Ma la vinse lei, Fantina la testarda. E i giudici costrinsero i potenti Procuradori a pagar perfino le spese processuali...
A proposito: le tavole d’oro che fine hanno fatto? Mah...