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 2024  febbraio 04 Domenica calendario

Intervista a Massimo De Lorenzo

Massimo De Lorenzo è un bravissimo attore. Ha quella faccia un po’ così, quell’espressione un po’ così, quell’indolenza un po’ così che lo rendono ancor più celebre del suo nome.
Massimo De Lorenzo, oltre a essere un bravissimo attore, ha scoperto una vena da scrittore tanto da pubblicare Tante care cose (Bibliotheka Edizioni): una serie di lettere a differenti destinatari in grado di comporre e ricomporre il puzzle della sua esistenza (“Il grazie va a Luca Vendruscolo: mi ha dato una gran mano”). Quindi Reggio Calabria, le aspettative, i sogni, le difficoltà, l’essere e il non essere, il credere e il non credere; Goliarda Sapienza e il pacco di viveri da casa. Lui la sua prima vera fama l’ha conquistata dentro l’acquario di Boris dove si è svelata, rinnovata o centrata una lunga serie di attori. Ma prima, e soprattutto dopo, ha dimostrato di non essere solo quel tipo con la faccia un po’ così, quell’espressione un po’ così, quell’indolenza un po’ così.
Boris è del 2007: la svolta.
Eppure quando è uscita su Fox, credo che l’abbiano visto in otto; una situazione deprimente, ma poi è una nato una sorta di mercato nero; (ci pensa, sorride) neanche io ero tra gli otto, non ero abbonato a Sky.
Insomma, da lì…
Appunto, il mercato nero: secondo i dati dell’epoca, Boris è la seconda serie più scaricata illegalmente, dietro solo a Lost; comunque è stato un piccolo miracolo, un qualcosa che si è scoperto dopo, anche per noi. Ma con qualche limite.
Cioè?
Nella prima stagione i mezzi erano pochi, il set povero.
Quasi amatoriale.
Alla fine è stata la sua forza; è esploso talmente tanto in maniera anomala, tra passaparola e passaggio di dischetti, che quando è uscito il film non si è calcolata la sua tipologia di pubblico.
Traduciamo.
Nei giorni di programmazione del film, incontro alcuni ragazzi per strada, mi fermano, complimenti e selfie, poi in maniera scontata domando: “L’avete già visto al cinema?”. E loro imbarazzati: “Veramente, no”. “Come mai?”. “Lo scarichiamo”.
È stato il suo più grande riflettore.
Prima ero più da lavoretti, poche pose, una miriade di film; insomma, rientravo nella categoria di attori che quando t’incontrano, d’estate, ti fissano con una sola espressione in viso: “L’ho già visto, ma dove?”. Invece con Boris hanno associato nome e volto.
La sua è una filmografia sconfinata.
Con ruoli da caratterista.
L’esordio nel ’92 con Amelio nel Ladro di bambini.
Ancora frequentavo il Centro Sperimentale di Roma e nella commissione per entrare c’era proprio Amelio; così lo chiamai al telefono di casa; per come sono, un azzardo.
È da lei tale coraggio?
No, erano incoscienza e spudoratezza, ma anche altri tempi: Gianni aveva il suo numero sulle Pagine Gialle e rispose nonostante la segreteria telefonica fosse inserita. Oggi sarebbe impossibile.
Una delle lettere è dedicata a Goliarda Sapienza, sua insegnante.
Ho pubblicato la seconda versione, nella prima ero troppo sdolcinato.
Com’era lei?
(Sorride) Matta svampita, una che pagava i due elettroshock; con un vissuto difficilissimo: a quel tempo nessuno avrebbe creduto nelle sue doti di scrittrice.
E come insegnante?
Era entrata grazie a Lina Wertmüller, ma in realtà non aveva alcun metodo, ci chiedeva solo di replicare le scene; (pausa) ma per me è stata una maestra di vita.
In cosa?
Negli anni successivi al Centro eravamo diventati amici: erano continui scambi culturali, suggerimenti di libri e film, e una forma di psicoanalisi.
Nella lettera racconta di un approccio rude…
Durante una lezione, davanti a tutti gli studenti, si mise a urlare e a ridere contro di me; ripeteva: “Devi scopare, devi scopare!”. Per lei il mio atteggiamento chiuso mi impediva di risultare aperto sulla scena.
Perfetto.
In altri casi mi prendeva per il culo su mia madre (il tono è perfetto, la imita con la cadenza canzonatoria e fanciullesca): “Ah, ti manca la mammina? La mammina che ti proteggeva?”. Insomma, andava a scuotere le fondamenta del mio essere.
La metteva davanti a un confine pesante.
Per fortuna sono riuscito ad analizzare la questione; in realtà tutto ciò avveniva quando stimava il soggetto di fronte.
Il Massimo di oggi giudica il Massimo di ieri come un talento?
In realtà la percezione di me non è tanto cambiata: credo di possedere abilità e talentini di vario genere; (pausa) ne parlavo pochi giorni fa con un collega: “Il pubblico ci riconosce, siamo considerati bravi, poi però non siamo un Mastandrea, un Favino o un Gifuni. Che cos’è che ci manca?”
La risposta?
Secondo il collega i nostri genitori ci hanno insegnato ad accontentarci.
Non avete fame.
Sì, ma non è neanche vero; però chi arriva al top, oltre al talento è disposto a tutto pur di ottenere successo; mentre noi è come se avessimo il timore di metterci nei guai, meglio accontentarci, aspettare la buona sorte.
Essere disposti a tutto vuol dire accettare compromessi e rischiare di restare nudi davanti a tanti ruoli.
È così.
Lei rischia?
È evidente: non abbastanza.
La volta che ha rischiato di più?
(Sospira) Forse in questo libro: qui non ho mantenuto alcun pudore; quando sono in scena tendo ancora un po’ a nascondermi.
Un ruolo al quale ha rinunciato per un freno.
A nessuno.
Secondo Verdone la carriera si costruisce sui “no”.
Se te lo puoi permettere; e poi sono tremendo nei provini.
Che accade?
Ne ho sbagliati tanti, sento troppo l’urgenza di far bene, il famoso: “Vi prego, prendetemi”.
Un provino sbagliato?
Una serie televisiva dedicata alla Sapienza, un personaggio che ricordavo bene, me ne aveva parlato proprio Goliarda. Invece niente.
Le sue aspettative al Centro?
Ero molto soddisfatto perché la selezione era complicata; arrivo da Reggio Calabria e lì sopravvive una certezza: per ottenere qualcosa è necessaria la raccomandazione.
E lei?
Solo con le mie forze; (sorride) chi entra subito mentalmente è investito da un’aura come fosse improvvisamente diventato De Niro.
De Lorenzo chi era?
De Niro! Ero in preda a un’autoesaltazione.
In cosa si manifestava?
Ero convinto di far parte del Gotha. Avevo quell’atteggiamento.
Pure verso la famiglia?
Soprattutto e per la mia città; ho pure mollato l’università a due esami dalla laurea; a Reggio se uno insegue i propri sogni, costringe gli altri a una sorta di esame di coscienza rispetto alle proprie decisioni e alle proprie rinunce.
Il suo sogno?
Diventare come Proietti o Verdone.
Ha lavorato con entrambi.
La prima volta che ho visto Carlo ero molto giovane, e mi sono quasi paralizzato; (sorride) ero sul set di Al lupo al lupo e tutti andavano da lui per una foto o un autografo; io in disparte. A un certo punto Carlo si avvicina: “Un giorno capiterà a te”.
E Proietti?
Giravamo una scena a due; dopo il primo ciak mi ferma e consiglia come strappare una risata; altro ciak e altro consiglio. A quel punto si accorge dello stupore misto a gratitudine: “Non è che so’ bono, so’ regista”.
Tradotto?
“Non mi rubi la scena, ma se ottieni una risata in più va a vantaggio di una serie in cui sono il protagonista”. Questa è la grandiosità che ho riscontrato raramente; (pausa) per entrare al Centro ho portato un monologo di Gigi.
A Proietti lo ha rivelato?
Certo, e lui serio: “E ti hanno preso?”. “Perché?”. “A me il cinema me odia”.
Torniamo al libro: racconta un approccio complicato con Roma.
In realtà era duplice: da una parte l’esaltazione, dall’altra forti sentimenti nostalgici.
Come mai?
Per fortuna sono stato scout, altrimenti avrei avuto zero esperienza di vita, coccolato e ovattato in famiglia; (pausa) i miei sono stati speciali nel non ostacolare le mie velleità artistiche: se fossi rimasto in Calabria probabilmente sarei diventato un disadattato.
Le arrivava il pacco alimentare?
Porca miseria: valigie piene.
Ha recitato in Scarlet Diva, film considerato trash.
(Cambia tono di voce) Qui entra in gioco Nanni Moretti.
E come?
Tra di noi c’è “stima alla Nanni Moretti”.
Spieghiamola.
La stima scatta da quel che accade quando lo incontri: se non ti ignora e manifesta due o tre concetti, pure cattivi su di te, allora c’è stima; insomma una volta lo vedo, passa, si ferma e torna da me: “Hai fatto Scarlet Diva! Mio Dio come siamo caduti in basso”. E se n’è andato.
Stima vera.
Me ne ero reso conto già sul set; stavo lì e pensavo: ma perché ho accettato?
Che accadeva?
La mia scena era pesante: Asia Argento seduta al bar, Vera Gemma arriva a tette di fuori, io ubriaco, lei mi prende la testa e me la piazza tra le tette.
Arte.
Mentre stavo con la testa tra le tette pensavo: “Perché, perché?”. (Pausa) ricordo il messaggio di Asia in segreteria dopo avermi mandato il copione: “Ciao Massimo, ricorda che non esistono piccoli ruoli, ma solo piccoli attori. Ciao”.
In carriera ha vinto un David.
Come interprete di un brano.
Però è stato sul palco con la statuetta in mano.
E una figura di merda.
Addirittura.
Lì ho pensato di cavarmela con una battutina, ma la battutina la devi preparare, oppure devi essere Mastandrea che ha una gran capacità di improvvisare.
Invece?
Chiunque è salito prima di me ha esordito con “non me lo aspettavo assolutamente”; io ho cambiato registro: “Invece ne ero sicuro”. Tullio Solenghi, che presentava, non ha capito e mi ha chiesto: “Cosa vuoi dire?”. Lì è crollato tutto.
Ricordo pessimo, quindi.
Ancora peggio ho l’immagine di Francesco Munzi: quell’anno aveva conquistato tantissime statuette per Anime nere, ma alla fine della cerimonia nessuno del mondo del cinema è andato da lui per complimentarsi. Aveva vinto troppo.
Ha recitato per Woody Allen.
Quel film l’ho accettato solo per stringergli la mano.
E… ?
Non riuscivo a guardarlo negli occhi.
E… ?
Alla fine del ciak ho sentito una pacca sulla spalla, mi giro e trovo lui che mi dice “Very good”.
Sono soddisfazioni.
Ora qualcuna me la sto prendendo, come con la tournée teatrale di Perfetti sconosciuti con Paolo Calabresi, Dino Abbrescia… una compagnia di colleghi bravissimi ed è merito di Paolo Genovese.
Calabresi è un talento.
Eccome, ma siamo una compagnia di sottovalutati perché pure gli altri lo sono. E questo un po’ ci unisce umanamente.
Lei chi è?
Un artista fortunato.