la Repubblica, 4 febbraio 2024
Piero Martin, spiega perché sbagliare è utile
Gli errori difficilmente si riconoscono, se li si commette. Assai più facile stigmatizzarli, se il responsabile è qualcun altro. Eppure, errare non solo è umano, può essere anche utile per imparare qualcosa di nuovo, su se stessi e sul mondo. La scienza è lì a dimostrarlo: tutt’altro che infallibile, la ricerca è costellata di errori che, lungi da rappresentare un fallimento, hanno in realtà fatto fare grandi progressi alla conoscenza. E una rassegna di sbagli (e abbagli) scientifici, forieri di nuove scoperte, è quella contenuta inStorie di errori memorabili (Laterza), ora in libreria e firmato da Piero Martin, professore ordinario di Fisica sperimentale all’Università di Padova.
Rievocare le “cantonate” degli scienziati (anche di grandissimi come Einstein e Fermi) permette a Martin di raccontare in modo originale vicende già note: dalla scoperta della doppia elica del Dna alla nascita del mito dei marziani. Ma l’elogio dell’errorescientifico, nelle intenzioni di Piero Martin, ci aiuta anche a essere più indulgenti con noi stessi e con chi ci sta vicino; se hanno sbagliato geni come Fermi e campioni come Antonio Cabrini…
Professor Martin, che c’entra il terzino della nazionale che vinse i Mondiali di calcio del 1982 con il premio Nobel per la Fisica?
«Sono due grandi campioni che hanno commesso, di fronte a un pubblico enorme e nell’occasione della vita, due errori finiti bene. Cabrini sbagliò il rigore nella finale contro la Germania. Poi, come sappiamo, è finita bene lo stesso. Fermi invece tenne a Stoccolma una lectio magistralis in occasione della consegna del Nobel nel 1938, per aver messo a punto una tecnica per lo studio dei nuclei atomici usando i neutroni lenti. Ma tra i tanti risultati ottenuti con tale tecnica, ritenne di aver rivelato elementi chimici più pesanti dell’uranio, sconosciuti all’epoca. In realtà aveva osservato, senza saperlo, la fissione del nucleo atomico. Quando lo comprese, riconobbe l’errore e corresse il testo della lezione che aveva tenuto a Stoccolma».
In che senso l’errore può avere un ruolo positivo, nella scienza come nella vita, o su un campo di calcio?
«Preferisco far rispondere Karl Popper, secondo cui “evitare errori è un ideale meschino: se non osiamo affrontare problemiche siano così difficili da rendere l’errore quasi inevitabile, non vi sarà alcuno sviluppo della conoscenza”. Inoltre la scienza ci insegna che se si vogliono fare progressi, in qualsiasi campo, bisogna essere lasciati liberi di sbagliare. E poi non vale il principio di autorità: non si ha ragione perché si occupa un certo ruolo, ma perché si esibiscono fatti che provano la tua tesi».
Perfino Albert Einstein, il genio per antonomasia, ha sbagliato?
«Ha sbagliato anche lui. E in un certo senso ha sbagliato due volte sullo stesso argomento. Scrive la teoria della Relatività generale, in un contesto in cui l’universo è considerato statico. Ma dalla sua teoria emerge un universo in movimento, che si espande. E allora Einstein introduce una “correzione” alla teoria, la costante cosmologica. Ma di lì a poco si dimostra che l’universo è in espansione: il padre della Relatività ammette l’errore e toglie la correzione. Alla fine degli anni Novanta però si comprende che il cosmo non solo si espande, ma lo fa a velocità crescente: perdescrivere questo fenomeno c’è bisogno di reintrodurre nella teoria di Einstein una costante cosmologica».
Ci sono gli errori che conducono a nuove scoperte. Ma anche errori che illudono che si sia davanti a una scoperta rivoluzionaria e poi si rivelano per quello che sono: un connettore difettoso, come nel caso, citato nel libro, dei neutrini “più veloci della luce” sparati dal Cern di Ginevra e captati sotto il Gran Sasso. Entrambe queste tipologie di errore hanno lo stesso valore pedagogico?
«Sono entrambi momenti inevitabili per la conoscenza. Anche nella vicenda dei neutrini superveloci, per esempio, la comunità dei fisici ha dimostrato la grande forza della scienza, che consiste nel cercare con grande onestà intellettuale l’errore per poi riconoscerlo».
Ci sono errori dovuti al fatto che gli scienziati si “affezionano” a una teoria e finiscono per non “vedere” i fatti e i dati che la confutano?
«Cito il caso di Giovanni Battista Riccioli, gesuita-scienziato che nasce una trentina d’anni dopo Galileo e fa esperimenti cruciali per provare le teorie galileiane. A un certo punto teorizza quello che poi sarebbe stato l’effetto Coriolis, una dimostrazione plastica che la Terra ruota intorno al Sole. Riccioli è però così legato alla sua visione geocentrica da non riuscire a fare l’ultimo passo».
Gli errori della scienza che lei racconta possono essere alla base della crescente sfiducia nella ricerca da parte di un pezzo della società?
«Temo che questo non dipenda dagli errori della scienza, ma dall’essersi disabituati alla fatica dell’apprendimento. Manca sempre più la consapevolezza che il sapere, quello dello scienziato, come quello dell’artigiano, richiede fatica».
Come le è venuta questa idea di raccontare la scienza partendo dagli errori?
«Forse perché non ne ho fatti tanti in vita mia. Ma aldilà della scienza, questo libro è un tentativo di rivalutare, in tutti gli ambiti, l’errore: è inevitabile e occorre saperci convivere. Diamoci e diamo, soprattutto ai più giovani, la possibilità di sbagliare.
Impareremo comunque qualcosa».