la Repubblica, 4 febbraio 2024
In morte di VE. Il fascismo e le leggi razziali Così gli epigoni dei Savoia gettarono il regno nel fango
Casa Savoia ha avuto una storia pressoché millenaria, rafforzata nell’immaginazione popolare da narrazioni successive di cronisti compiacenti, che ne hanno fatto risalire le origini ai Sassoni. Storia e leggenda, come si sa, si incrociano spesso quando si tratti di stabilire l’antichità dei lignaggi e del rango. Certamente, a cavallo dell’anno mille, con la disgregazione del regno di Borgogna, sembra partire una storia che progressivamente lega all’Italia la traiettoria politica dei Savoia. Variamente apparentati con le più varie aristocrazie europee, i Savoia orientano l’asse dei loro interessi territoriali verso la pianura padana. Apparentemente marginali per storia e geografia, poco a poco i Savoia si portano in Piemonte e spostano la loro residenza principale e le istituzioni del loro Stato da Chambery a Torino nel 1563. Hanno alle spalle già secoli di vita e di battaglie per il consolidamento del loro potere; ma è con Emanuele Filiberto, nipote dell’imperatore Carlo V, che i duchi di Savoia si radicano nel territorio italiano. Coltivando mire che vanno in direzione di Milano, e barcamenandosi in alleanze continue e alterne tra Francia e Spagna.
Con una ennesima giravolta diplomatica e militare, Vittorio Amedeo II riesce a terminare il conflitto per la successione al trono di Spagna, a cavallo tra i secoli XVI e XVII, dalla parte dei vincitori, riuscendo a salvare Torino e lo Stato dall’assedio di Luigi XIV di Francia. Ne guadagna il titolo regale, quello che tramuta il Ducato di Savoia in Regno di Sardegna. È il 1713. Ma non è questa la storia che trapassa la realtà locale e diventa epopea nazionale. È, viceversa, proprio la fine del ramo principale della dinastia che inserisce lo stemma sabaudo nella bandiera e nei destini dell’Italia: con la morte di Carlo Felice nel 1831, si estingue la continuità dinastica, sale al trono Carlo Alberto, del ramo cadetto dei Savoia Carignano. Ed è proprio da quel momento che la casata assurge al ruolo di motore della indipendenza e della unità nazionale italiana. È quasi un paradosso, ma da allora i Savoia vanno ad iscriversi nel pantheon della gloria nazionale, forse con i meno brillanti dei rappresentanti della casata. Carlo Alberto, che perde la prima guerra di indipendenza del 1848-49, ha tuttavia il merito di varare lo Statuto che porta il suo nome: libertà di associazione, libertà di stampa e libertà di culto non sono cose da poco. E infatti, quelle possibilità di azione portano a Torino la prima grande immigrazione da ogni parte d’Italia.
I più reputati intellettuali veneziani, milanesi, fiorentini, napoletani arrivano a Torino, fondano giornali, partiti, e si confrontano con i politici piemontesi, non tutti appiattiti sulle posizioni della corte sabauda. A partire da Cavour; per non dire, ovviamente, dei Garibaldi e dei tanti che maturano a Torino una idea repubblicana o comunque liberale, ora più moderata ora più radicale. Sarà merito di Vittorio Emanuele II, nell’ora fatidica dell’unità nazionale, nel 1861, non revocare quelle garanzie costituzionali e il parlamento bicamerale. Certo, proprio allora si fa strada un racconto edulcorato della casata di Savoia che vede finissimi politici ed eroi guerrieri anche quando i panni e le abitudini sono quelli di rudi cacciatori di provincia. Il Risorgimento, con le parole corroboranti dei De Amicis, dei Carducci e dei Pascoli, è tutto a vantaggio della fama dei Savoia.
In realtà, proprio nella apparente cuspide della storia sabauda, la curva del declino è già iniziata. Lo spostamento della capitale a Firenze e poi a Roma non sono decisive in questo senso; ma lo sono le personalità reazionarie di Umberto I, che si distinguerà per la repressione delle sollevazioni popolari, e quella meschina, incerta e ombrosa del cosiddetto Re Soldato, Vittorio Emanuele III, che non sarà capace di firmare l’ordine di contrastare la marcia su Roma di Benito Mussoli e dei suoi squadristi; che si lascerà imbalsamare al Quirinale nei panni di un generale senza capacità di comando, indegnamente disposto nel 1938 a vidimare le leggi razziste antisemite, nonché a tollerare la sudditanza dell’Italia fascista all’alleato nazista, nel segno di guerre sanguinose, ancora perdute, e dei crimini più efferati. La breve stagione di Umberto II non ha emendato le ombre scurissime di questi pavidi epigoni di una casata plurisecolare. La scomparsa di Vittorio Emanuele, ultimo nato nell’epoca della monarchia, chiude ingloriosamente l’ultimo atto di una storia che, fortunatamente, ha visto la saggezza popolare scegliere la Repubblica e quella dei politici usciti dalla guerra di Liberazione dare vita alla nostra Costituzione.