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 2024  febbraio 04 Domenica calendario

Intervista a Eros Ramazzotti

Quel ragazzino adesso suona sui palchi di tutto il mondo e ha venduto 70 milioni di dischi. Quel ragazzino adesso è anche nonno. Ma allora, il 3 febbraio 1984, quando Eros Ramazzotti salì per la prima volta sul palco del Festival di Sanremo per cantare «Terra promessa», era solo un ventenne timido, in giubbotto, t-shirt scura e riccioli malandrini, col sogno della musica. Per celebrare il compleanno tondo ieri sono apparsi cartelloni digitali a Roma, Milano, New York, Citta del Messico, Medellin, Madrid, Varsavia e Monaco di Baviera e giovedì sarà ospite di Amadeus all’Ariston. «A volte mi capita di rivedere quel video su internet... – racconta la nostra prima popstar da esportazione —: a quel ragazzino direi di stare tranquillo perché andrà tutto bene».
Nella serata successiva Pippo Baudo la proclamò vincitore: lei rispondeva a monosillabi...
«Se avessi potuto sarei sparito... Eros Potter. Oggi a 18 anni vedo che i cantanti vanno sul palco e fanno le capriole, sono già pronti».
Come nasce questa celebrazione all’Ariston?
«Come la risposta naturale, dovuta e doverosa all’invito di Amadeus. Anche se non vendo più i dischi che vendevo in passato, sento una bella curiosità attorno. È bello, non è facile restare nelle testa della gente. E questo è il mio modo per dire “sono ancora qui” e per ringraziare tutti. Artisticamente sono nato su quel palco e festeggerò cantando “Terra promessa” e basta: Sanremo è il Festival dei cantanti in gara».
Ci tornerebbe?
«Mi piacerebbe, ma ci vorrei anche De Gregori, Vasco e gli altri che hanno fatto la storia della musica italiana».
Dice che non vende più dischi come allora, ma perché farli? Nei concerti la gente vuole ascoltare i classici.
«È l’istinto di chi scrive canzoni. Ovunque vada ci deve essere uno studio di registrazione: ne ho costruito uno anche nella casa che ho preso in Messico. Lo zoccolo duro dei fan apprezza, invece in quel vortice di musica che ci investe ogni giorno qualcosa si perde. C’è troppa musica, anche inutile, e anche tanta con testi negativi».
Che ne pensa delle rime machiste e violente di molti trapper?
«Non c’è rispetto per le donne. Dopo il lockdown si è accentuata la follia, in particolare quella degli uomini. Ma come fai a tirare fuori dalla testa dei ragazzi certe idee se ascoltano quei brani?».
Torniamo al passato. Come ci arrivò a Sanremo?
«Con una Renault 5 e sotto una neve di 2 metri: imparai a guidare più che a cantare... Gianni Ravera, il patron del Festival, mi aveva notato a un’audizione: lo avevano colpito la mia voce – ha fatto scuola ma senza una molletta sul naso è difficile imitarmi – e la faccia da borgataro che vuole spaccare tutto».
«Siamo ragazzi di oggi, pensiamo sempre all’America»...
L’emozione
Quando Pippo Baudo annunciò la mia vittoria e mi mandò davanti ai fotografi, volevo sparire
«Era l’idea di partenza, tanto che il primo titolo era “I ragazzi di oggi”. Lo cambiammo quando arrivarono Renato Brioschi e Alberto Salerno che mi aiutarono a scrivere il resto. Ero filoamericano non per le guerre che gli Stati Uniti facevano ovunque andassero, ma per la musica: quando è morto Elvis Presley ho pianto».
«Una terra promessa, un mondo diverso».
«Era un messaggio di speranza. Ognuno aveva la sua: il no alle guerre, il lavoro, la famiglia».
Lei l’ha trovata?
«Sì. Nel conseguire ogni giorno qualcosa di diverso, nel crescere sempre per migliorarmi».
Nei sentimenti?
«Ho vissuto felicemente tutte le mie relazioni, ma senza costruirne una duratura. Diciamo che ho sempre avuto delle famiglie allargate e che mi ci sono trovato bene».
La terra promessa oggi?
«Vive in me ogni giorno e possono essere i miei figli, mio nipote, il rispetto della natura. Tutti vogliamo un miglioramento che dipende anche dalle decisioni di altri. Pensiamo alle guerre. Oppure a tutto quello che in Occidente facciamo per stare meglio ma che ci torna indietro perché il pianeta non ci regge più».
A ottobre ha compiuto 60 anni: ha accusato il colpo?
«(ride) Ho qualche dolorino in più, ma ho la voglia di vivere di un ventenne».
E la botta psicologica del diventare nonno?
«Sì, ma è un’esperienza fantastica. Gli ho già regalato una chitarra. Una vera. Anche se so che la scasserà subito, mi piace l’idea che scopra gli strumenti».