Corriere della Sera, 4 febbraio 2024
Fuga in India. Senza ritorno
Quando ero un bambino di nove anni i miei genitori mi portarono in India. Nonostante vivessimo da sempre in Asia non ero preparato a questo Paese, e in particolare ai lebbrosi per le strade e alla povertà, che mi turbava. Volevo andarmene subito.
L’ultimo giorno, però, arrivando su una grande piazza, vidi tre uomini magri accucciati per terra, con l’aria serena, composta. Uno di loro teneva in mano uno strumento musicale semplicissimo, con una sola corda. Erano quasi nudi, con lunghe barbe e i capelli incolti avvolti sopra la testa come delle corone. Possedevano meno dei mendicanti, ma parevano dei re.
«Chi sono quelli?!», chiesi, subito colpito.
Ci avvicinammo, mio babbo fece alcune domande in giro e scoprimmo che i tre erano dei baba, degli asceti. Abitavano in una grotta nella giungla ed erano lì solo di passaggio. Ho ancora la foto che mia mamma scattò di quell’incontro. Ho la faccia turbata: «Ma esistono ancora al giorno d’oggi persone che vivono da soli nella giungla, senza niente?».
Non me li sarei più scordati.
Infatti, quando una ventina d’anni dopo, intorno all’età della crisi spirituale, dopo lunghi studi sui libri, mi trovai a disagio con le scelte di vita che il mondo mi presentava, mi tornarono in mente proprio quei re-mendicanti e volli tornare in India a vedere se esistevano davvero persone che avevano preso una via così diversa. La via del sempre di meno, invece che quella del sempre di più.
Lasciato il frastuono delle grandi città il primo posto dove decisi di cercare era un luogo chiamato Hampi, nello stato indiano del Karnatatka, una distesa di macigni immensi di granito, attraversata da un fiume fresco e punteggiata dalle rovine di un antico impero. Mi fu detto che, sì, lì, al di là del fiume, abitava un baba.
Presi una barchetta – una cesta rotonda di vimini —, attraversai il fiume, mi avventurai per i pietroni per un po’ e a un certo punto vidi una grotticina. Mi avvicinai con cautela. Là dentro c’era un uomo, dritto e severo, con il corpo ricoperto di cenere, stava seduto dietro a un fuoco. Mi fece cenno di accomodarmi.
Provai un certo timore, o rispetto. Non ero mai stato a trovare qualcuno in una grotta. Intorno c’erano altre persone, indiani, con cui lui finì di parlare e che poi se ne andarono, toccandogli i piedi in riverenza. E mi trovai da solo con lui.
Mi sedetti sulla nuda terra. Mi guardai intorno. Il posto era straordinariamente suggestivo, proprio una grotta ombrosa e affumicata, con fuori una vista sul fiume e i resti di un monumentale ponte di pietra che secoli prima lo aveva attraversato per portare al Tempio della Luna, che ora la natura si stava rimangiando. E questo personaggio, forte, dritto, con quella corona di capelli avvolti sulla testa, mi spaventava, mi affascinava. Volevo fargli tantissime domande: cosa l’aveva portato a vivere lì? Qual era il senso della vita ascetica? Ma le lingue dell’India non le conoscevo. Allora provai in inglese.
«Baba», incominciai. «Where are you from?». E lui rispose: «I-i-italy».
Rimasi di sasso.
Quella sera mi invitò a rimanere, se ero veramente interessato. Potevo dormire nella grotticina accanto. E cosa avremmo fatto? Avremmo guardato il sole che tramontava e che risorgeva la mattina. L’idea di fare qualcosa di così primitivo mi attirava fortemente, per ricalibrare i pensieri e le priorità dopo anni di vita in città, ma alla fine non ero abituato a posti dove passavano colonne di formiche trasportando uno scorpione stecchito. Inoltre, dai brevi discorsi di quell’uomo, «Baba Cesare», intuivo che aveva avuto problemi con la legge. Mi domandai cosa avesse fatto, e mi inquietava.
«Forse un giorno ritornerò», dissi. E me ne andai. (...)
Un giorno, tornato in Italia, sentii che c’era in giro un baba italiano che era vissuto a lungo in India. Che fosse quello che avevo incontrato anni prima a Hampi? Feci di tutto per contattarlo e quando ci trovammo, in mezzo al traffico di una strada di Firenze, nonostante il fatto che fosse molto invecchiato e quella schiena dritta fosse diventata curva, riconobbi subito Baba Cesare. Cominciammo a parlare e nacque un’amicizia. (...)
Molti sono stati i giovani che in quegli anni sono partiti per l’Oriente misterioso, per l’India, in cerca di una vera spiritualità. Quasi tutti hanno fatto esperienze indimenticabili, poi sono tornati a casa, qualcuno rinato, qualcuno disfatto, qualcuno uguale, e si sono adattati a un lavoro come l’offriva la società da cui erano scappati; alcuni hanno addirittura fondato le più grandi aziende multinazionali di oggi e hanno fatto fortuna.
Questa invece è la vita di uno che non è tornato.
E allora eccovi la strana e terribile e illuminante storia di Baba Cesare, così come lui stesso me l’ha raccontata.
BY ARRANGEMENT WITH THE ITALIAN LITERARY AGENCY