Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2024  febbraio 04 Domenica calendario

In morte di Vittorio Emanuele


Era più forte di lui. Quando decise di rivolgersi all’allora presidente per chiedere il proprio ritorno in Italia, gli scrisse una lettera, indirizzandola al «sig. Pertini Alessandro detto Sandro, palazzo del Quirinale». Come se l’interlocutore fosse un inquilino abusivo, la Repubblica questa sconosciuta. Forse aveva aspettato troppo a lungo, per la revoca di quelle disposizioni transitorie della Costituzione che impedivano il ritorno della sua famiglia. E, nell’attesa, si era davvero convinto di essere un re mancato, l’erede legittimo del padre della patria di cui porta il nome.
Il suo problema principale è sempre stato questo. Sentirsi un sovrano senza trono, senza patria e senza popolo, con quest’ultimo che manifestava un disinteresse, questo sì regale, per le vicende del suo casato, considerando lui e i suoi cari al massimo come personaggi da rotocalco, o da reality show.
In famiglia lo chiamavano Totò, per omaggiare un suo illustre concittadino e magari anche per tagliare corto sul nome di battesimo, che all’anagrafe recitava Vittorio Emanuele Alberto Carlo Teodoro Umberto Bonifacio Amedeo Damiano Bernardino Gennaro Maria.
Per gran parte della sua vita, conclusa ieri poco prima di compiere 87 anni nella sua villa di Ginevra, si è sognato monarca di un’Italia antecedente alla concessione dello Statuto Albertino, e come tale si è sempre comportato, sentendosi non vincolato da leggi che non riconosceva e che al massimo reputava valide per i sudditi che avevano tradito il suo papà con il referendum del 1946. Ne è conseguita una esistenza piena di inciampi, di frasi talvolta orrende e di gaffes autolesioniste. Più scaltro di lui, il figlio Emanuele Filiberto accettò invece di recitare un sorridente principe da reality televisivo, trasformando in un marchio la dinastia e il suo stemma, che in cinque secoli avevano conosciuto tempi e Savoia migliori.
Fin da subito appare chiaro che la proverbiale ombrosità del padre non si era trasmessa all’erede. Dopo aver lasciato il Quirinale dove abitava e poi Napoli, dove era nato il 12 febbraio 1937, per andare in esilio, conduce una vita abbastanza sopra le righe. È lui stesso a raccontarla in una autobiografia densa di aneddoti non proprio improntati alla sobrietà. Quando la sorella, principessa Maria Gabriella, non lo invita alla sua festa, lui affitta un aereo per sorvolare la villa della parente e lanciare pomodori marci sugli astanti. Quando durante un viaggio la madre Maria José gli racconta ammirata della nuova Ferrari acquistata dal fratello Leopoldo del Belgio, per farle uno scherzo si lancia a quasi trecento all’ora sull’autostrada per Reims che sta percorrendo in quel momento. Patente ritirata, con quei regicidi dei gendarmi francesi insensibili alle proteste reali.
La villa di Ginevra, trenta stanze e piscina coperta, preferita come residenza d’esilio al Portogallo da lui giudicato «freddo e inospitale», diventa un crocevia di affari, chiacchiere e intrallazzi spesso fomentati da personaggi che agiscono sulla sua fissazione per un regno che non esiste più.
Oltre le gaffe
Processato per traffico d’armi e per aver causato la morte di un giovane, era nella P2
Ossessionato dall’idea di ricostituire il patrimonio familiare, l’erede al trono dei Savoia si fa una reputazione da mediatore vendendo allo scià Reza Pahlavi elicotteri civili prodotti dal conte Corrado Agusta che poi riappaiono adornati di mitragliatrici e lanciarazzi in Sudafrica, Singapore, Malaysia, persino in Afghanistan. Triangolazioni che l’Onu denunciava spesso e che negli anni Settanta gli varranno una accusa di traffico d’armi formulata dal giudice veneziano Carlo Mastelloni, ben presto trasferito d’urgenza a Roma. Nonostante il proscioglimento, la dissoluzione di quella inchiesta autorizza l’opinione pubblica a riproporre il connubio tra Savoia e massoneria. Anche perché l’uomo tende a non farsi mancare nulla. «Savoia Vittorio Emanuele, casella postale 842 Ginevra, numero di tessera 1621». Nell’elenco della P2 c’è anche il suo nome. E tra le sue tante cattive compagnie, spicca quella di Licio Gelli.
Ma è niente, o quasi, rispetto a quella notte. Isola di Cavallo, Corsica, 17 agosto 1978. Fino a quel momento, Vittorio Emanuele si è fatto notare per un provocatorio saluto dall’alto del suo yacht al sindaco della prospiciente e italiana Santa Teresa di Gallura. A bordo ci sono lui, la sua bellissima moglie Marina Doria, della quale era molto geloso, e Nicky Pende, playboy e figlio di uno dei più noti medici di Roma. Succede qualcosa. Dalla barca del principe parte un colpo di fucile che ferisce a morte il giovane Dirk Hamer. Vittorio Emanuele entrerà nel tribunale di Parigi in manette, per uscirne assolto, senza mai spendere un briciolo di umanità per un ragazzo deceduto dopo atroci sofferenze. «I giudici francesi hanno stabilito che non è successo niente». Tutto qui. Nel rivelare una sua pretesa superiorità agli uomini e alle loro regole, è soprattutto questa vicenda che gli alienerà molte simpatie nella patria della quale continua a sentirsi il re.
Arriva poi il tempo della riconciliazione. Anche perché la nostra Repubblica si è dimostrata impermeabile a qualunque nostalgia monarchica, aiutata in questo dalle gesta verbali di un principe pasticcione come Vittorio Emanuele. Ogni volta che si avvicina al traguardo, subito lo allontana con qualche frase sbagliata. Le leggi razziali firmate dal nonno? «Non erano poi così terribili». Il presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi invia un telegramma di condoglianze per la morte dell’adorata madre Maria José? «Grazie, ma non giurerò mai sulla Costituzione, se incontrassi per strada Ciampi non gli chiederei nulla. Ho rispetto per la carica, non per la persona». Con la sua nota perfidia, Francesco Cossiga lo definisce intanto come «un uomo molto semplice».
Torna infine, «nella Napoli sempre amata», accolto dalle bandiere dei Borboni che gli danno del traditore per essersi sottomesso alla Repubblica, mentre il resto dell’Italia intera si dimentica presto di lui. Nel 2006, tre anni dopo, le accuse di corruzione e sfruttamento della prostituzione formulate dal pubblico ministero Henry John Woodcock gli costano due settimane di carcere e finiscono in una bolla di sapone. Ma dall’ingiusto calvario giudiziario emerge la caduta in basso di un aspirante monarca che si occupa di gioco d’azzardo, slot machine e scambi di valute nei Casinò, e frequenta ormai personaggi di confine che lui per primo definirebbe di basso lignaggio.
Agli atti di quella inchiesta della procura di Potenza rimangono intercettazioni come di consueto non attinenti alle indagini, che rivelano però la verità sulla tragedia dell’Isola di Cavallo. «Anche se avevo torto, devo dire che li ho fregati», dice riferito ai giudici francesi. «Io ho sparato un colpo così e un colpo in giù, ma il colpo è andato in questa direzione, è andato qui e ha preso la gamba sua, che era steso, passando attraverso la carlinga». Pallottola trenta zero tre, aggiunge. È consapevole di essere intercettato. Ma non rinuncia alla vacua leggerezza propria di chi si sente al di sopra di tutto. «Quei coglioni che ci stanno ascoltando... Sono dei morti di fame, non hanno un soldo, devono rimanere qui tutta la giornata, mentre probabilmente la moglie gli fa le corna».
Da allora, poco o nulla da segnalare, sull’uomo che voleva essere re e ha invece trascorso la vita intera stretto in un destino e in una realtà che non riusciva ad accettare.