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 2024  febbraio 04 Domenica calendario

Marwan Barghouti, l’ergastolano che potrebbe diventare presidente

GERUSALEMME Quando tredici anni fa gli israeliani accettano di rilasciare 1.027 detenuti palestinesi in cambio del caporale Gilad Shalit, il 1028° che resta indietro è il più popolare in Cisgiordania e in gran parte della Striscia su cui già spadroneggiano i fondamentalisti di Hamas. Che valga la pena liberarlo lo sostiene pure chi in cella ce l’ha messo, condannato a cinque ergastoli nel maggio del 2004 per il coinvolgimento negli omicidi di quattro israeliani e un monaco greco. Lo Shin Bet, i servizi segreti interni, valutano che nei Territori sia ormai meglio confrontarsi con un capopopolo capace di unificare le fazioni e mantenere il controllo.
Mentre Benjamin Netanyahu, al secondo dei sei mandati da premier, ha già in mente di indebolire l’Autorità a Ramallah, non vuole leader troppo forti per le strade e allo stesso tempo elargisce un regalo ad Abu Mazen: il vecchio raìs preferisce che «Napoleone», com’è soprannominato per la piccola statura e le grandi ambizioni, rimanga in carcere. Dove al massimo Marwan Barghouti può riuscire a organizzare uno sciopero della fame a oltranza che coinvolga tutti i prigionieri, come nel 2017, ma non può fargli concorrenza al vertice del potere.
Netanyahu accetta però nell’elenco dei liberandi il capobanda Yahya Sinwar, che torna a Gaza dov’è nato fino a diventarne il boss jihadista: è a lui che le forze speciali danno la caccia nelle gallerie sotto la sabbia, dopo i massacri del 7 ottobre a sud di Israele che ha pianificato assieme a Mohammed Deif, detto il «fantasma». Barghouti – che i palestinesi considerano il loro Nelson Mandela – è invece cresciuto in un villaggio sulle colline attorno a Ramallah e ha militato nelle frange più estreme del gruppo opposto ad Hamas, il Fatah fondato da Yasser Arafat, anche se ne critica la corruzione quanto gli islamisti, soprattutto dopo l’ascesa al potere di Abu Mazen: nel 2004 aveva deciso di sfidarlo dal carcere alle prime – e uniche – elezioni presidenziali per poi ritirarsi «in nome dell’unità». Si è sempre proclamato indipendente: «Non sono il cameriere di Arafat».
Barghouti
è l’unico leader palestinese con la legittimità necessaria a condurre il suo popolo verso una nazione che conviva con noi israeliani
Come Sinwar in cella ha imparato l’ebraico, ha continuato a studiare e ha approfondito la biografia di David Ben-Gurion, il padre fondatore dello Stato ebraico. Nel 2006 è stato l’artefice del cosiddetto «documento dei prigionieri» in cui i detenuti – venerati dai palestinesi come il simbolo più prominente della lotta – proclamano di essere pronti ad accettare la nascita di uno Stato nei confini del 1967, l’appello viene firmato anche dai rappresentanti di Hamas. Questo elemento viene ricordato dagli analisti adesso che i fondamentalisti chiedono la sua liberazione nell’intesa per una pausa nei combattimenti e lo scambio tra il centinaio di ostaggi israeliani ancora tenuti a Gaza e i detenuti arabi.
È il primo nome a essere annunciato, è il primo della lista. «Hamas vuole dimostrare di non essere un movimento chiuso, di sentirsi responsabile anche per il resto della società» commenta Qadura Fares, che da decenni segue in Cisgiordania la questione dei detenuti.
A 64 anni Barghouti – pronosticano i sondaggi – batterebbe Ismail Haniyeh, il leader di Hamas ospitato dal Qatar, nel voto per la successione ad Abu Mazen. Amy Ayalon, ex capo dello Shin Bet, è tra gli israeliani convinti che sia «l’unico leader con la legittimità necessaria a condurre i palestinesi verso una nazione che conviva con noi», come spiega al quotidiano britannico Guardian. Il premier Netanyahu non si smuove dalla replica di protesta al giornale americano New York Times, che aveva pubblicato un editoriale firmato da Barghouti e accompagnato dalla definizione «parlamentare e leader»: «È un assassino. Chiamarlo politico è come dire che Bashar Assad è un pediatra».