il Giornale, 3 febbraio 2024
Anna Maria Ortese, elogio al coraggio del perdono
Se c’è una cosa che l’uomo non riesce a perdonare all’altro, è proprio la capacità dell’altro di perdonare; se c’è un fatto per cui è difficile produrre perdono, questo è esattamente la logica dissennata, imprevedibile e sovversiva del perdono stesso: lo sapeva bene Anna Maria Ortese, fra gli autori più grandi del XX secolo, che sull’etica della misericordia ha fondato tutta la sua vita, quindi anche la sua opera. Dal suo esordio – tre poesie fulminanti per il fratello Manuele – fino al suo ultimo romanzo e ai contributi pubblicati postumi, non c’è un luogo dei suoi scritti che non urli alla pietà del mondo, non c’è una sola riga, un solo termine che non traduca appelli disperati per il cambiamento, quindi per il mutuo soccorso.
Di questo sono testimoni anche alcuni articoli che redasse per il Giornale, fra il ’96 e il ’97. Ortese stava già male, stremata da un’esistenza piena di tormenti e prossima alla morte. Eppure si sentiva ancora più in dovere di dare l’esempio, calcando la sua compassione su una realtà che reputava insostenibile, mostruosa, kafkiana; una realtà, raccontò sul Giornale, che voleva processare per la seconda volta l’allora ottantenne Erich Priebke, ex agente della Gestapo, capitano delle SS e fra i protagonisti del massacro delle Fosse Ardeatine. Ortese lo descrisse come un vecchio lupo sconfitto, un moribondo su cui la sua colpa medesima gravava già come un boia tremendo: aveva quindi senso continuare ad accanirsi? A che scopo proseguire il gioco della vendetta? Perché non sorprendere, la storia come sé stessi? In sintesi: «perché odiare?», domandò rivolta ai suoi concittadini, che non tardarono a crocifiggerla, a indignarsi contro una creatura che chiedeva di rispondere al male non con altro male bensì col bene, che invitava a essere più estremisti dei nazisti stessi. Ma in che modo? Evolvendo, fece capire Ortese, perdonando.
Uguali presupposti li troveremo negli altri pezzi, dove la scrittrice si schierò a favore di Joseph O’Dell, un discendente della tribù nativa dei Cherokee condannato alla sedia elettrica in Virginia. Ortese qui chiama in causa l’America, come fosse una persona: la definisce «il Paese felice», il Paese tremendo e luccicante che rincorre un piacere dopo l’altro, affamato di prosperità e in balìa del mito dell’infanzia, ossia del capriccio e della gratificazione immediata. In un contesto del genere va da sé che non c’è posto per alcuni sentimenti, soprattutto non c’è posto per il dolore. «Guardate la sua faccia» scrisse «grida e piange come gridereste voi, o noi, perché non vuole morire. Ma la sua voce viene ricoperta dal silenzio di una società impassibile, perché senza conoscenza del dolore». Dove collocare perciò gli emarginati in uno scenario tanto surreale, voluttuoso e immaturo? Gli uomini rotti, gli sbagliati, i mal funzionanti, i frantumati dalla violenza di altri uomini, i tanti Joseph O’Dell che affollavano e affollano tuttora le carceri, come sistemarli? Come proteggerli?
Anche in questa eventualità la risposta non cambia: occorre essere rivoluzionari, bisogna praticare la dimensione più all’avanguardia, inaccettabile e disumana di tutte: il perdono. Che non vuol dire trattare ogni vicenda senza la gravità che merita, non significa rimuovere responsabilità e relative pene da infliggere. Ortese non fu mai una pensatrice banale e non era una sprovveduta in preda a fantasie fanciullesche; chiedeva però di tutelare la vita, a prescindere, chiedeva la difesa della vita al netto di qualsiasi variante, chiedeva ai giudici di O’Dell di superare «l’avversione quasi dolorosa di lasciarlo in vita». Ciononostante non si riuscì a salvarlo, fu giustiziato il 23 luglio 1997 nel penitenziario di Jarratt, dopo che la mobilitazione di Ortese e del Giornale fece smuovere mezza Europa, perfino Papa Giovanni Paolo II e Madre Teresa di Calcutta, i quali chiesero la grazia al governatore statunitense George Allen, ma invano.
L’autrice, che sarebbe scomparsa qualche mese dopo, nel marzo del ’98, registrò l’evento non come sconfitta personale ma come baratro generale. Lesse inoltre quell’atto di superbia come un tentativo di misurarsi col Dio che «ha creato il mondo, e dato a ogni vivente il Suo respiro, e a ogni uomo il suo inizio e la sua fine». Pensiero da legare inoltre a una confessione paradossale, cui Ortese era giunta un ventennio prima: «non so se posso dirmi cristiana» dichiarò, «ma temo di credere in Cristo»: una provocazione che fa sorridere, ma che più di ogni cosa fa intuire l’animo di quest’intellettuale: assolutamente mistica, pienamente evangelica e vicinissima a quel Cristo che per lei fu più di un modello, fu molto di più che un contestatore di ordini morali in cui riflettere il proprio destino di incompresa: senza considerare ciò non si comprenderebbero gli interventi usciti sul Giornale, non coglieremmo quegli inni di civiltà nella loro pienezza, nel potenziale stupendamente eversivo e nella disarmante, inaudita dose di umanità rivelata. Proprio quell’umanità, come avvenne per Cristo e come avviene ancora adesso, si fatica ad accettarla e a replicarla. Ne abbiamo avuto una conferma pochi giorni fa, dinanzi all’esecuzione di Kenneth Smith avvenuta tramite azoto puro, che avrebbe causato al cinquantenne dell’Alabama un’agonia atroce, durata più di venti minuti.
«Me ne vado con amore»: queste le ultime parole dell’uomo, un uomo straziato e attonito, che ha provato le stesse emozioni di Joseph O’Dell, il quale, prima di essere ucciso, chiese di effettuare un’ultima telefonata. Voleva chiamare il Giornale per comunicare la sua scelta di essere seppellito in Italia, a Palermo. «Vieni a portarmi un fiore» disse al giornalista Giorgio Morelli, «uno soltanto». Salutò poi la redazione, ringraziandola di essergli stata così vicino.