il Giornale, 3 febbraio 2024
Intervista a Nini Bruschetta
Ninni Bruschetta fonda la sua prima compagnia teatrale a 21 anni. È il 1983 e la sua prima regia è «Tre pezzi d’occasione di Beckett, con le musiche contemporanee dei Tuxedomoon: se mi avesse visto, Beckett mi avrebbe ucciso...». Da allora, dalla sua Messina, in «quarant’anni di mestiere» annovera una quarantina di regie teatrali, innumerevoli ruoli da attore al cinema e in tv (L’uomo in più, Mio fratello è figlio unico, Quo vado?, Squadra antimafia, I bastardi di Pizzofalcone, Boris...) e, più di recente, anche a teatro, come in 1984 di Icke e Macmillan; e qualche libro, l’ultimo dei quali è L’officiante. Considerazioni sul mestiere dell’attore e sulla sua funzione sociale, pubblicato da Luni Editrice.
Ninni Bruschetta, lei «fa tutto»?
«In realtà, per 35 anni ho fatto solo il regista a teatro e l’attore per il cinema e la televisione; poi, a 58 anni, nel 2019 sono stato morso dal cane del palcoscenico e ho iniziato a fare l’attore di teatro. Mi sento in vacanza, perché non devo più preoccuparmi delle luci, delle scene, di tutti i problemi... Poi alla mia età faccio solo il protagonista o il capocomico».
In 1984 chi è?
«O’Brien, il cattivo torturatore di Winston Smith: trentacinque minuti di tortura, una scena madre con un discorso sul potere di una lucidità eccezionale».
Nel libro sostiene che il regista sia al servizio dell’attore e non il contrario.
«Il fatto è che c’è una netta distanza fra come io intendo il teatro, ovvero come un rituale, e il teatro di regia, che ha avuto grande fortuna in Italia. E non lo dico per fare polemica, ma perché cambia in modo netto il rapporto fra attore e regista».
Come intende il teatro?
«Nel teatro tradizionale, che neanche prevede un regista, lo spettacolo deve sbocciare, deve nascere dagli attori: durante le repliche, gli attori se ne impossessano e migliora sempre».
Chi è L’officiante?
«È l’attore, nel momento in cui lo confronto, umilmente, sul piano analogico, col rito. Il senso della catarsi è quello della liberazione quando entri in un tempio, quello spazio vuoto che ci dona un senso di sacralità».
Scrive che è un lavoro «sensuale».
«Sì. L’attore deve sedurre, per portare lo spettatore nel sogno dello spettacolo teatrale. In particolare nei ruoli da cattivo».
Chi ha interpretato?
«A teatro, O’Brien è il più cattivo. In Il mio nome è Caino, dal romanzo di Claudio Fava, faccio un killer di mafia. In Spaccaossa di Vincenzo Pirrotta faccio il capo di questo gruppo che spacca le ossa alle persone per ottenere i soldi dell’assicurazione, un personaggio di una cattiveria tremenda. Ma, quando lo faccio, cerco di farlo il più cattivo possibile: è questo che convince lo spettatore».
Bisogna sospendere il giudizio?
«Sì. Anche nei sentimenti positivi: devi amare davvero, ma solo nel momento della scena. È giocare ad amare:
la cosa più difficile da fare a teatro, e la più bella».
C’è differenza fra recitare al cinema o a teatro?
«Francamente no. Al cinema è solo più difficile perché a ogni ciak ci si interrompe. Anche in Boris faccio un personaggio supernegativo, un cocainomane che frega i soldi. Del resto il mio è un lavoro bellissimo: il vero privilegio è vivere tante vite, essere tante persone».
E il libro come nasce?
«Per caso, entrando al Salone di Torino, mi sono imbattuto nello stand di Luni, che è uno dei miei editori preferiti, e mi sono fermato; il figlio dell’editore è un fan di Boris, così mi ha chiesto una foto, ci siamo messi a chiacchierare... E abbiamo pubblicato questo libro, che era già uscito anni fa per Bompiani, grazie a Battiato».
Ha fatto anche un film con lui.
«Sì, il suo primo film, Perduto amor. Anni fa, con Mario Martone, di cui all’epoca ero aiuto regista, andai a mangiare con lui e chiacchierammo di Gurdjieff: da lì iniziò un rapporto intellettuale delicato, ci sentivamo, andavo ai suoi concerti... Aveva la semplicità dei geni».
Ha lavorato anche con Woody Allen in To Rome with Love.
«Un solo giorno purtroppo, ma importante. Lui aveva un aiuto che traduceva tutto ma, nel mio caso, mi prese a braccetto e iniziò a parlarmi piano piano: avevo una paura tremenda di non capire. Sa, c’è una cosa che mi chiedono sempre su Boris: quanto c’è di scritto e quanto di improvvisato? E io dico: non c’è una virgola improvvisata. E pensavo che fosse uguale nel caso di Woody Allen».
Invece?
«Quando ci aprì la porta e vidi la sua faccia, la prima cosa che disse fu: mi raccomando, non badate al testo. Dopo che lo avevamo studiato per bene...».
E Sorrentino?
«L’ho incontrato quando faceva l’assistente alla regia di un film di cui ero produttore; mi fece chiamare per un provino e per me era un ragazzino... Mi prese per L’Uomo in più. Non ti rendi mai conto di come sia un film mentre lo fai; quando andai a vederlo, a Cinecittà, rimasi a bocca aperta e gli dissi: ma da dove vieni? Sono un suo fan sfegatato».
Dice che il teatro è una delle poche cose ancora in grado di sconvolgerci.
«È così. Tutti i film belli ti cambiano la vita».
Vale anche per chi recita?
«Soprattutto. Perché il prete dice messa ogni giorno? Perché lo fa stare bene. Quando nella Grande abbuffata di Michele Sinisi recitavo il monologo di Amleto non vedevo l’ora di andare in scena: ogni giorno aspettavo le 9 di sera per dire quelle battute. Come quando leggi le Sacre Scritture».