La Stampa, 3 febbraio 2024
La prima donna laureata
La prima donna al mondo a laurearsi è stata Elena Lucrezia Cornaro, a Padova, nella stessa università che ieri ha conferito la laurea in Ingegneria biomedica alla memoria di Giulia Cecchettin, che aveva 22 anni e stava per laurearsi quando Filippo Turetta l’ha uccisa, a novembre scorso.
Quando Elena Lucrezia Cornaro si laurea, il 25 giugno del 1678, ha 32 anni e indossa un manto di ermellino, una corona di alloro, un libro e un anello (è il primo e ultimo anello della sua vita): la divisa dei dottori, fino a quel momento tutti maschi, diventa unisex. La commissione, ammirata, le conferisce il titolo in filosofia e non in teologia, come lei aveva desiderato e richiesto, perché, secondo il cardinale Gregorio Barbarigo, vescovo di Padova e cancelliere dell’università, lo studio di Dio deve restare disciplina per maschi. Molti suoi colleghi si sono detti in disaccordo ma lui è rimasto inamovibile (e i secoli successivi gli daranno ragione: la prima laica italiana a laurearsi in teologia arriverà il 14 novembre del 2002 e sarà Maria Luisa Rigato, che si definirà “femminista secondo il Vangelo"). Barbarigo non se la sente di osare troppo, preferisce fare una rivoluzione per volta, certo che laureare una donna, la prima al mondo, restituirà prestigio e clamore al suo ateneo, da alcuni anni sottotono. E così sarà. Moltissime famiglie nobili, come è quella di Cornaro, prenderanno seriamente in considerazione di avviare le figlie femmine a una carriera di studi (tuttavia, la seconda donna a laurearsi sarà Laura Bassi, 54 anni dopo).
Del mancato alloro in teologia, comunque, Elena non si cruccia troppo. A tenere ai suoi studi è sempre stata lei: a tenere al titolo, invece, è sempre stato suo padre, Giovanni Battista Cornaro Piscopia, procuratore di Venezia nominato dal doge in persona, e personaggio molto romantico e chiacchierato, poiché convive more uxorio con una popolana, Zanetta Boni, della quale è innamoratissimo, in barba alle leggi della Serenissima che, per impedire che il sangue aristocratico si mescoli e disperda, non riconosce alcun diritto né ai figli di matrimoni morganatici né a quelli di patrizi e plebei. A Giovanni e alla sua Zanetta non importa e infatti vivono allo scoperto una relazione che li priva di diversi diritti. Elena è la loro quintogenita e, a rigore, non dovrebbe godere di nessuno dei privilegi dello status di suo padre e, secondo l’uso comune, dovrebbe venire destinata al convento. Giovanni, invece, la fa studiare, sebbene lei, sin da piccola, mostri un interesse accesso e particolare per il misticismo e la fede. Ad aiutarlo c’è un altro uomo, pre’ Fabris, sacerdote, che sprona Elena e le mostra che l’amore per Dio è anche studio e luce, quella luce che nominerà la rivoluzione del Settecento che Elena non farà in tempo a vedere. Sono cruciali, nella storia di Elena, molti altri uomini. Questi: Carlo Rinaldi, il suo maestro; Giampaolo Oliva, il suo padre confessore (gesuita); Felice Rotondi, il suo insegnante di teologia, che cerca di convincerla a discutere una tesi sulla rottura dell’universo aristotelico-tolemaico, all’epoca molto in voga, ma niente, lei tiene ostinatamente il punto e discute La Repubblica di Platone, e in particolare il V Libro, quello in cui si legge a un certo punto: «Disinteressandosi al sesso femminile per curarsi soltanto di quello maschile, il legislatore lascia che il primo si abbandoni alla mollezza. Così, a conti fatti, priva il suo Stato della metà della sua felicità». Infine, nella vita di Elena è stato cruciale Ibn al-Fàrid, un uomo di cui si innamora perdutamente e che le spezza il cuore.
Patrizia Carrano, magnifica scrittrice e affreschista, in uno splendido romanzo uscito per Mondadori nel 2000 e riproposto dallo stesso editore pochi mesi fa, Illuminata, ha raccontato questa storia, che è anche una storia di uomini che, anziché ostacolare una donna brillante, vedono la sua luce e la aiutano a non spegnerla. Soprattutto, la aiutano a non restare intrappolata nei gangli di un sistema che li avvantaggia e della cui iniqua assurdità si riconoscono responsabili. Fanno, in sostanza e da ante litteram, da «agenti di cambiamento», cioè la cosa che, il giorno dei funerali di sua figlia Giulia, Gino Cecchettin ha chiesto a tutti noi, e soprattutto agli uomini, di essere.
Nessuno dei dettagli che uniscono queste due storie, una affascinante e l’altra atroce, è solo una coincidenza. —