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 2024  febbraio 03 Sabato calendario

Intervista a Riccardo Cocciante

Dopo la vittoria nel 1991 con Se stiamo insieme, Riccardo Cocciante aveva fatto una promessa: «In gara non tornerò mai più». Promessa mantenuta, visto che le altre due apparizioni (2009 e 2019) lo hanno visto sul palco dell’Ariston come ospite. E ospite sarà anche quest’anno: canterà con Irama (che gareggerà col brano Tu no )nella serata dei duetti,Quando finisce un amore, che compie 50 anni.
Come vi siete scelti con Irama?
«Voleva fare qualcosa con me. È un artista che stimo molto, mi è piaciuto quando l’ho ascoltato a Sanremo.
Parlando con lui ho scoperto che è un ragazzo aperto, sincero, che vuole condividere ciò che di più intenso abbiamo dentro. Cerchiamo di creare una linea di continuità tra generazioni diverse».
A Sanremo è stato in gara solo una volta, e ha vinto. Che ricordi ha?
«È stata una vittoria difficile, contestata da giornalisti e critici.
C’erano grandi artisti, da Renato Zero a Umberto Tozzi. Ho avuto la sensazione che si preferisse la vittoria di altri, questo mi ha lasciato un po’ di amarezza. Ma la gioia fu grande, il dispiacere della contestazione dei critici fu cancellato dal riconoscimento del pubblico: la mia canzone si ascolta ancora, altri pezzi in gara quell’anno no».
“Quando finisce un amore” fu arrangiata da Ennio Morricone.
Come andò?
«Ho sempre ammirato Morricone, il suo modo di comporre, lo stile inconfondibile. Quando iniziammo a lavorare era spiazzato da me: ero fuori dagli schemi, cantavo urlando, lui era più misurato. Ma ha capito subito cosa bisognava mettere intorno alla mia voce. Mi chiamava “il mio gatto” perché, pur non avendo studiato musica, facevo cose che alla fine restavano in piedi».
Ricorda episodi curiosi?
«Era molto superstizioso, come me.
Entrambi detestiamo il colore viola.
Una volta, mentre stavamo registrando, entrò in studio una corista vestita col colore sbagliato.
Lui, con mia grande sorpresa, la cacciò via urlando. Dopo mezz’ora si ruppe la console».
Quest’anno compie 50 anni anche “Bella senz’anima”, uno dei suoi brani più amati (o odiati).
Oggi si potrebbe scrivere una canzone con quel testo? C’era una dedica particolare?
«In realtà già all’epoca era stato difficile farla passare, i discografici erano scontenti, la Rai non la programmava. Pensavo che non avrebbe avuto successo, ma alla fine dell’estate ero primo in classifica.
Per una canzone fuori dagli schemi le difficoltà esistono sempre ma si può fare tutto, decide il pubblico. C’è sempre qualcuno che arriva e ribalta le regole. Oggi per i giovani è piùdura, non hanno il tempo di sperimentare: sbagliano un singolo e sono fuori. Un artista ha bisogno di crescere, non basta seguire una moda perché i risultati poi sono modesti. In Italia c’è poca attenzione per l’underground».
E la dedica?
«Era solo un’allegoria. Ero timido e chiuso in me stesso, era un modo un po’ disperato per dire “ascoltatemi, esisto”».
Negli anni Settanta divise il palco del Teatro dei Satiri, a Roma, con Venditti e De Gregori. Che esperienza è stata?
«Loro erano già conosciuti, io avevo
appena pubblicato Poesia. Tutti mi sconsigliavano di accettare, loro erano artisti politicizzati ma entrammo in sintonia perché la mia era sì una protesta allegorica, ma pur sempre una protesta. Non cercavamo di piacere al pubblico ma, ognuno a modo suo, contestavamo. Capivamo che stava nascendo qualcosa di diverso rispetto al passato».
Più tardi ha diviso il palco con Rino Gaetano e, curiosamente, i più giovani conoscono la sua “A mano a mano” proprio nella versione di Rino.
«Mi fa immensamente piacere che le mie canzoni siano diffuse tra i ragazzi, anche se non sanno che quel brano l’ho scritto io. Lui l’ha fatto vivere in un modo diverso, un po’ come fece Joe Cocker con With a little help from my friends dei Beatles. L’importante è che le canzoni continuino a esistere. Rino era una persona autentica e non si sentiva molto inserito in questo mondo.
Soffriva. Non viveva bene la sua realtà, ma era gentilissimo. Era un grande talento, non meritava di finire così».
“Notre Dame de Paris”, la sua opera popolare tradotta in nove lingue, continua a ottenere un enorme successo. Ora festeggia il decennale in Corea.
«Mi ha sempre stupito la facilità con cui lo spettacolo ha passato le frontiere, trova un modo per esistere ovunque. Da bambino ascoltavo molta opera, poi mi sono innamorato del soul e di altra musica, amo la mescolanza. In fondoNotre Dame è figlio diMu,il mio primissimo album molto legato al progressive. È grazie a quell’esperienza che ho capito di appartenere solo a me stesso: quel disco annunciava la possibilità di scrivere una storia in musica, fuori dalle mode».
Oltre a Irama, c’è qualche giovane artista che apprezza?
«Mi piace chi propone qualcosa di diverso. I Måneskin sono stati un bel pugno in faccia. Mahmood ha una modalità che non appartiene solo all’Italia. Cerco di intercettare chi fa un passo avanti, come eravamo noi della scuola romana».