Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2024  febbraio 03 Sabato calendario

Intervista a Fabrizio Moro

Perché si sente un sopravvissuto?
«Perché ho pensato tante volte di non farcela, ho fatto tanta fatica, tanta gavetta, non arrivava mai, me l’hanno fatta prendere dalla Cina ‘sta roba».
Per questo ha l’aria sempre arrabbiata?
«Sono molto concentrato sulle cose che faccio e mi perdo il lato giocoso anche del lavoro; tutto sono tranne che incazzato nella vita, ma ora che ho 48 anni l’ho capito: passa di me un’immagine diversa dalla realtà. Forse dovrei fare un po’ di televisione, quelle lunghe interviste dove ti metti a nudo...». Non è il tipo però Fabrizio Moro, introverso nonostante il suo mestiere gli imponga di esibirsi. È stato sette volte al Festival di Sanremo e l’ha vinto in due occasioni: nel 2007 con Pensa tra i Giovani e nel 2018 con Non mi avete fatto niente in coppia con Ermal Meta. Ci sarà anche quest’anno ma come ospite nella serata dei duetti con Il Tre («lui canta molto bene a differenza della maggior parte dei rapper»); dal 25 maggio invece aprirà il suo tour – «Una vita intera» – da Roma («sono cresciuto a San Basilio, una borgata dove c’è anche tanta bellezza e fermento, non solo spacciatori»).

PUBBLICITÀ

Sanremo Giovani fu la svolta?
«Dopo Pensa ho avuto un sacco di alti e bassi, momenti di polarità importante, momenti in cui non mi filava nessuno. La vera svolta è arrivata al Festival del 2017 con Portami via».
L’anno successivo arrivò anche la vittoria.
«Il ricordo più bello è proprio nei confronti di Ermal, lui aveva un po’ di paura su quel progetto, veniva da un momento molto fortunato, io gli proposi l’idea della canzone insieme e sentivo una grande responsabilità nei suoi confronti perché ho insistito tanto».
Ci fu il rischio di squalifica per presunto plagio.
«Lì mi sono sentito morire, pensavo che fosse tutta colpa mia; poi l’ho abbracciato durante la premiazione e gli ho sussurrato all’orecchio: vedi che mi dovevi dare retta».
Apparentemente siete diversi e lontani di carattere.
«Lui è molto più espansivo, io più chiuso, ma abbiamo un trascorso molto simile, quando ci siamo conosciuti ci siamo detti che siamo due sopravvissuti, lui per un verso, io per un altro».
Avete anche litigato?
«Con lui le litigate piottavano proprio... discutevamo sulle idee di arrangiamento, sul testo: lui ha un caratteraccio e io sono peggio di lui. In questo siamo simili, ora è una delle persone a cui voglio più bene, in lui ho trovato un fratello».
Alla musica lei ha affiancato anche il cinema. Il suo secondo film da regista (firmato con Alessio De Leonardis) «Martedì e Venerdì» sarà in sala dal 22 febbraio: è la storia di un padre separato che prende una brutta strada. Anche lei avrebbe potuto prendere una brutta strada?
«È una domanda che mi sono fatto tante volte e mi sono dato risposte diverse a seconda del periodo in cui me la sono fatta».
Il protagonista del film è Edoardo Pesce.
«Uno degli attori più bravi, sono suo un suo fan dai tempi di Dogman».
Ha litigato anche con lui?
Ride. «Non come con Ermal, ma abbiamo avuto un rapporto anche conflittuale, con discussioni particolarmente accese. Io sul set curo il minimo dettaglio e divento un rompicoglioni, dalla A alla Z per ogni cosa, mentre lui a un certo punto voleva essere lasciato – giustamente – libero di interpretare la scena a suo modo».
Lei è un insicuro?
«Nel cinema non sono sicuro come nella musica, non è il mio territorio di nascita. Ho l’ansia sulle spalle, sono scrupoloso, mi faccio mille problemi, imporre la propria visione è complicato se arrivi da un mondo diverso: il direttore della fotografia aveva fatto già 30 film, l’aiuto-regista 50, l’operatore altri 100, arrivi te – cantautore – e anche se li hai scelti tu, ti guardano con il sottotesto: ma questo che cazzo vuole?».
Parlava della gavetta, oggi è più facile ottenere tutto e subito?
«Oggi è più facile avere visibilità, popolarità, successo, creare una carriera invece è più complicato. Alcune volte sono caduto nella trappola del successo, ma la maggior parte delle volte no: posso definirmi uno che ha sempre pagato per la sua libertà, sono felice di quello che ho, sono un uomo sereno. Ora anche se non passa un mio pezzo in radio per due anni in tour c’è sempre tanta gente che viene a vedermi. Vuol dire che le persone si sono affezionate al mio linguaggio».
Ha avuto tanti «no» prima di emergere?
«Intende discografici che ti dicevano che erano pronti a firmare il contratto e poi sparivano? Ho fatto il pieno».
Che rapporto ha con il successo?
«Ci sono momenti in cui non riesco a fare scopa con la popolarità, mi mette a disagio, uso poco i social, vado di rado in tv, mi sforzo per fare la promozione. Il sistema che gira intorno al successo mi fa soffrire, non lo vivo con tranquillità. Ma ero così anche da ragazzo: tra la discoteca piena di gente e la birra con un amico a chiacchierare, sceglievo sempre la seconda. Il caos mi mette a disagio, e il successo porta caos».
Se non avesse fatto il cantante?
«Avrei fatto il professore, mi piace stare a contatto con i ragazzi, cercare di rendermi utile».
A scuola però non era il massimo...
«Mi sono ritirato al quarto anno, pensi che scemo. Studiavo cinematografia. Fu un anno drammatico, in una classe di ripetenti, ho litigato con il professore, ho fatto casini. La verità è che non sopporto le regole: in un perimetro accademico divento pazzo. Prima di ritirarmi definitivamente dalla scuola mandai a quel paese quel prof che mi aveva reso l’anno impossibile. Ancora oggi non me ne pento».
Ha attraversato la depressione, la dipendenza da alcol e droga: come ne è uscito?
«Non ne vado fiero, ma non mi vergogno a parlarne, l’importante nella vita non è tanto cadere quanto rialzarsi. Ho avuto periodi di fragilità e continuo ad averne – è giusto che ci siano —, ne sono uscito quando è nato il mio primo figlio: la paternità ha innescato il mio senso di rivalsa, in quel momento credo di essere diventato più coraggioso».
Si discute molto di Elodie (e non solo lei): per molti è la rivendicazione di esibirsi come si vuole, per altri è la conferma di certi stereotipi della società patriarcale.
«Ognuno può fare ciò che vuole, l’importante è che si esprima con delle belle canzoni. Se fra 10 anni i pezzi di Elodie rimarranno vorrà dire che ha fatto bene a mettersi in mutande».