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 2024  febbraio 03 Sabato calendario

Intervista al figlio di Carla Fracci

«Mamma era di tanti, era di tutti».Con Francesco Menegatti cerchiamo di rivedere una donna che è stata un simbolo di Milano e una leggenda della danza. Quella donna, trasparente come il vento, è Carla Fracci. Francesco è suo figlio.
Qual è il suo primo ricordo, quando pensa a lei?
«I suoi abiti bianchi, le sue lane con cui trasmetteva calore. Aveva un enorme guardaroba tutto bianco».
Lei, da bambino, quando entrava in quella stanza, la stanza da letto di Carla...
«Era il suo regno inscalfibile. Lì entravano i massaggiatori e i fisioterapisti. Il letto diventava l’officina di mamma. Faceva la manutenzione del corpo, se ne riappropriava dopo gli spettacoli. Nella sua stanza c’era un clima di invalicabilità, era il luogo segreto del castello. Ricordo l’angolo in cui si truccava. Mamma era trincerata idealmente in un’oasi di pace, era un luogo inespugnabile, aveva una sua sacralità. È stato così fino all’ultimo».
La malattia...
«La affrontò con grande riserbo. Non ne parlava, io stesso sapevo pochissimo. La affrontò con lo stesso spirito di sacrificio con cui aveva costruito la vita professionale. Mesi dopo la morte, mio padre (il regista Beppe Menegatti, ndr) nella stanza di mamma entrava in punta dei piedi per paura di svegliarla. Poi, disse papà, entrava qualcuno per svegliare me, e capisco che non siamo più due».
Aveva fede?
«Mia madre era spirituale nel modo di affrontare l’arte».
E nella vita quotidiana com’era?
«Non era severa: era accogliente. Autorevole, mai autoritaria. Una volta andò a parlare con i miei professori, su loro richiesta. Era battagliera. L’unica occasione in cui perse le staffe e l’aplomb fu con l’ex sindaco di Roma Gianni Alemanno. Lei era direttrice del ballo all’Opera di Roma, lo incontrò a teatro e gli urlò: è un anno che le chiedo di ricevermi, sono una cittadina e lei ha il dovere di ascoltarmi. Striscia le diede il Tapiro. La quotidianità la esprimeva nell’ordine. Era puntigliosa. Quando apparecchiava la tavola c’era un che di remoto: la sua infanzia che veniva fuori. Metteva il mollettone per la tovaglia, i sottobicchieri, il centrino. Ho visto fugaci tentativi di cucinare. Non era roba sua».
Chissà il niente che mangiava.
«Sembrava non vi facesse attenzione, invece era onnivora. Mangiava poco di tutto. Non rinunciava mai al caffè. A Natale il panettone rigorosamente senza canditi e uvetta».
E con lei, era attenta all’alimentazione?
«Io ho perso cinquanta chili in un anno e mezzo. Tre anni fa quando è morta avevo raggiunto il peso massimo, e non c’è bisogno di aggiungere altro, su questo gli psicologi potrebbero sbizzarrirsi. Avevo anche la tiroide che non andava, un problema metabolico serio».
La danza la portava via da lei?
«La cercavo anche tra i suoi vestiti, nei maglioni a girocollo che sembravano neve. Però mi portava con lei quanto più possibile. Ricordo i passi delle scarpette sul palco, quando non c’è l’orchestra fanno rumore. L’ho seguita in tante tournée, in Giappone dove il pubblico alla fine degli spettacoli l’aspettava fuori del teatro come se fosse un rito. La volevano baciare, toccarle le mani».
Perché sta sorridendo?
«Perché i giapponesi non riuscivano a pronunciare il suo cognome. La chiamavano Fracchi, io da allora presi a chiamarla così, Fracchi».
C’è uno sdoppiamento. Da una parte l’astrazione del colore bianco così amato, e la danza; dall’altra la materialità del corpo che era il suo strumento di lavoro.
«Diceva, ho un’immagine astratta. Ma io sono una donna di famiglia, ho un figlio, ho i problemi che hanno tutte le donne. È uno sdoppiamento che si plasma in Giselle, il suo ruolo preferito, dove il terreno e l’ultraterreno sono fusi in un’unica persona».
Le parlava delle sue origini umili?
«Mi raccontava della fame del dopoguerra, dei genitori, i miei nonni, che la iscrissero alla scuola della Scala perché davano un pasto gratuito agli allievi».
Cosa le era rimasto delle radici?
«Mamma stava sulle punte, leggera come una piuma, avendo i piedi ben piantati per terra. Il divismo non era possibile. Fu la prima a portare la danza nei tendoni, per avvicinare più gente possibile al balletto. Poi diventò una moda. Non fu compresa da tutti, c’erano diffidenze. Era un messaggio politico, quello di portare l’arte nelle fabbriche, nelle carceri. Poi in tv ballò il can can con Heather Parisi e il tip tap con le gemelle Kessler».
Le parlò mai del cruccio di non avere avuto, alla fine degli Anni 90, la direzione del corpo di ballo della Scala?
«Non si dava pace, diceva: non capisco perché non mi hanno chiamata. Una risorsa così grande di arte e maestria non venne utilizzata. Fu ferita. I veri motivi non li disse mai».
Però amava la sua Milano.
«Moltissimo. Non amava i grattacieli ma certi negozi che non ci sono più, la nebbiolina, l’atmosfera di Brera».
L’ha mai incoraggiata a diventare ballerino?
«Solo una volta, in modo fuggevole. Passeggiavamo, si girò e mi disse, la scuola di danza della Scala, no? Risposi che non mi sembrava il caso».
Lei cosa fa?
«Insegno Architettura all’università Roma Tre. Sono diventato professore tardi. Mamma chiedeva agli intimi: ma ce la farà, Francesco? Il mio cruccio è che non mi ha visto in questa veste, ho 54 anni, sono professore da due».
L’architettura ha in comune con la danza i numeri.
«Se ripenso a lei sul palco mi viene in mente l’Uomo vitruviano di Leonardo, lo studio del corpo umano, le proporzioni, la tensione, il controllo nel rapporto con lo spazio e il tempo. Diceva che il corpo della ballerina dà forma a storie, che loro non sono bambole meccaniche. Non ci sono solo gambe e piedi: c’è un pensiero, c’è un’emotività».
Ha conosciuto Nureyev e gli altri?
«Tutti. Nureyev era scostante, egocentrico, un gatto chiuso in sé stesso; una volta dopo Romeo e Giulietta alla Scala mamma reagì, era amareggiata, si conoscevano da tanti anni, lui in scena faceva dispetti, la mandava fuori asse per primeggiare. Baryshnikov era caloroso, Iancu stupendo, arrivò dalla Romania con una Dacia gialla, Vassiliev mi teneva sospeso a due metri da terra con un braccio. La casa di Firenze si era trasformata in una specie di Comune. Dormivano tutti da noi. Mamma aveva fondato nel 1985 la Compagnia Italiana di Balletto. C’era una stanza dove facevano le prove. Ricordo Luc Bouy, il ballerino e coreografo belga, che in giardino recitava il mantra. Dopo gli spettacoli, mamma e il suo partner si guardavano fissi negli occhi, in un silenzio intenso, era l’intesa interiore dopo che i loro corpi si erano fusi».
Un ricordo dell’infanzia?
«A Forte dei Marmi, in casa di amici cari, i signori Giusti. Era il buen retiro di mamma. Lì conobbi Eugenio Montale che per me era una persona normale, non potevo avere consapevolezza da piccolo. Anni dopo per le strade di Milano continuammo ad avere un rapporto semplice. Il ricordo più struggente è l’ultimo».
Cioè?
«Al funerale, quando il tram passò davanti alla Scala (nel foyer era allestita la camera ardente), fu suonato il campanello. L’ultimo omaggio all’étoile. Era quello che faceva mio nonno tranviere, quando passava davanti al teatro e sapeva che mamma era in sala prove».
Com’è essere figlio di una grande artista?
«È stato appassionante, travolgente, anomalo, faticoso. Era davvero complicato essere mamma e artista. Era materna e affettuosa per quanto ha potuto. Mi chiedeva se la danza la portava lontana da me. Sì, nell’esercizio fisico quotidiano. L’assenza di mamma era la mia normalità. È un tratto comune ai figli di gente famosa, non sto dicendo nulla di speciale».