La Stampa, 2 febbraio 2024
Vent’anni senza papà
2004-2024. Vent’anni senza la presenza di mio padre non sono stati facili da attraversare. Oltre alle croci e delizie della vita famigliare, eravamo abituati a condividere un po’ tutti gli eventi significativi. Stavamo insieme, smarriti, davanti alla radio, il 22 novembre del 1963, quando giunse la notizia dell’assassinio di Kennedy. E anche un anno dopo, il 14 ottobre, per la destituzione di Kruscev, che ci sembrava completare la fine di una rinata speranza di pace. Avevamo fatto notte insieme il 12 dicembre del 1969, a cercar di elaborare lo shock della strage di piazza Fontana, convinti entrambi, fin da allora, che fossero stati i fascisti e non gli anarchici. Ed eravamo uno accanto all’altro il 31 maggio del 1974, a Brescia, per i funerali delle vittime dell’attentato di piazza della Loggia, partecipi di quel grande processo pubblico alle trame nere e alle connivenze dello Stato. Durante i terribili 55 giorni del rapimento Moro ci telefonavamo praticamente ogni giorno, sperando, inutilmente, che alla fine un minimo di umana pietà prevalesse. Fu lui a darmi per primo la notizia dell’assassinio del suo amico Carlo Casalegno. E fui io a telefonargli subito dopo aver saputo dell’attentato di Capaci, per mettere in comune la nostra vergogna di appartenere a un Paese dove fatti simili possono accadere. L’ultima telefonata di quel tipo, lo ricordo come fosse ieri, fu l’11 settembre del 2001, lo chiamai alle tre e mezzo del pomeriggio, appena apparvero in tv le immagini della prima torre gemella in fiamme, e ci dicemmo che il secolo che nasceva non si annunciava meno feroce e disumano di quello che era appena finito.Di quel secolo double face, metà tragedia metà speranza, mio padre ha vissuto “fisicamente” la vicenda. La lama di ferro che come una scure, tra il 1940 e il 1945, è caduta a dividerne violentemente la Storia, ha spaccato in due anche la sua biografia personale, in un prima, l’infanzia, l’adolescenza, vissute all’ombra vergognosa di un regime dispotico e fasullo («nell’ignoranza», scriverà) e un dopo dedicato al tentativo di rimediare a quei guasti e a quelle colpe inespiabili. In mezzo – non mi stanco di ripeterlo, perché spiega tutto di quello che sarebbe diventato -, il “punto di rottura”, il momento della verità, che per lui giunse nella steppa russa, alla fine del suo viaggio “au but de la nuit” potremmo dire, nella catastrofe della ritirata, i 40 gradi sotto zero, la massa degli sbandati abbandonati a se stessi, la battaglia di Nikolajevka, quando toccò alla divisione Tridentina, e al suo battaglione, il Tirano, sfondare la sacca dei corazzati sovietici, gli altri sottotenenti della sua compagnia caduti, i suoi alpini congelati a morire nella neve, la vista dell’enorme piana bianca punteggiata da macchie scure, col comandante tedesco che chiede perché quei soldati italiani non si muovono, e il maggiore Maccagno che risponde piangendo “alle kaputt”, tutti morti… Allora morì anche il tenente Revelli, ufficiale modello, allievo scelto all’Accademia di Modena, un “najone” a detta di tutti, e nacque una nuova persona, quella che pochi mesi dopo, l’8 settembre, sarebbe salito in montagna a fare il partigiano. La prima formazione cui diede vita la chiamò “Compagnia rivendicazione caduti”, nata dal sentimento elementare, prepolitico, istintivo, di riscattare tutte quelle morti inutili, volute da un Regime violento, da un Re codardo e da una Patria matrigna. Espressione di quell’antifascismo esistenziale che costituì una delle radici della Resistenza.Quel grumo di dolore, di lutto, se lo è sempre portato dentro. Anche in famiglia. E pesava. Era un padre non dico affettuoso (aveva un grande pudore dei sentimenti) ma sicuramente presente (fin troppo, ansioso com’era che mi potesse toccare anche una minima frazione delle sue sofferenze). Ma c’era un angolo di lui, qualcosa nel suo profondo, che non si poteva raggiungere, perché lì abitavano i ricordi di chi non era tornato, dei troppi morti, di quelli come lui che non ce l’avevano fatta. C’è una frase sua che sintetizza tutto ciò: «Ricordati di non dimenticare». È il titolo della mostra fotografica che sarà esposta a Torino al Polo del ’900, e sono le parole che si ripeteva, il 30 gennaio del ’43, all’ingresso del villaggio di Sebekino, quando all’uscita dalla “sacca”, quel che restava della sua Divisione, una fila di uomini coperti di cenci, piegati in due dalla fatica, febbricitanti, congelati, vinti, sfilò davanti al generale Reverberi, con da una parte i tedeschi che li fotografavano e ridevano e dall’altra le donne russe che piangevano di pietà. Quella memoria se l’è portata dietro tutta la vita, anche in famiglia, come una zona d’ombra che nessuno di noi riusciva a penetrare pienamente. Una sorta di debito, da pagare. Per questo buona parte del tempo che gli restava libero dal lavoro (lasciato l’esercito che non sopportava più aveva dovuto reinventarsi la vita, prima come camionista sotto padrone, poi messosi in proprio), lo dedicava alla scrittura e alla ricerca. Perché anche gli altri ricordassero e sapessero. Mai tardi, il suo diario di Russia, poi La guerra dei poveri, con il seguito partigiano, La strada del Davai, le testimonianze dei prigionieri, L’ultimo fronte, le lettere dei caduti… Erano i suoi conti con la guerra. Il suo modo di riscattare quelle vite perdute. Così come le ricerche sulla civiltà contadina per Il mondo dei vinti e L’Anello forte sono la testimonianza di una guerra proseguita in tempo di pace.Due cose mi ha insegnato, ossessivamente ribadite. Il NO alla guerra. Un no perentorio, incondizionato. Il rifiuto della madre di tutte le catastrofi, l’insensata passione che tira fuori il peggio dagli uomini e porta alla rovina i popoli, documentato nel suo ultimo libro, Il disperso di Marburg. E il suo NO al fascismo, come antropologia prima ancora che come forma politica. La perversa cultura che della guerra mette in scena l’anima nera. Sono stati questi i caposaldi di un insegnamento durato per quasi sessant’anni.Quel dialogo finì il 5 febbraio del 2004. Per me restava un vuoto difficile da colmare, la sensazione di dover camminare in solitudine, in tempi difficili. Per lui, mi rendo conto che è terribile quanto dico, forse è stato un sollievo, non dover vedere disperdersi tutto ciò per cui aveva lottato e sofferto. Già negli ultimi anni non sopportava più i telegiornali, le immagini del Paese in mano a un affarista spregiudicato che sdoganava i fascisti e praticava sistematicamente il conflitto d’interessi. Non oso immaginare cosa proverebbe ora. —