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 2024  febbraio 02 Venerdì calendario

L’editore di Henry Beyle

Cresciuto in provincia di Palermo, in una casa senza libri, è sfuggito a un destino da commerciante inseguendo il sogno di fare l’editore. A Milano da quarant’anni, con la sua Henry Bayle pubblica titoli raffinati, in cerca di “altre vite possibili”diAntonio GnoliNel piccolo gioco degli pseudonimi, Vincenzo Campo prenderebbe da Cristina Campo (in realtà Vittoria Guerrini) quella raffinatezza, tutt’altro che dolciastra, che nella scrittrice era sostanza e in Vincenzo è soprattuttoforma. Ma dopotutto che cos’è la forma di un libro che intende distinguersi da tutti gli altri libri, al punto da somigliare solo a se stesso? Vado a trovare l’editore di Henry Bayle (che è già il ritorno dello pseudonimo Stendhal) nella sede milanese dove opera, che è poi anche la casa dove vive.Quartiere Bovisa, un tempo luogo di fabbriche e di operai spinti lì dalla grande emigrazione del dopoguerra.Visconti ci ambientò alcune scene di Rocco e i suoi fratelli,proprio dalle parti del Ponte della Ghisolfa su cui Testori aveva scritto alcune intense pagine e lo stesso Olmi raccolto le sue radici: «Di quel mondo non resta quasi nulla, non ci sono più collanti, è un quartiere sempre più anonimo ed è la ragione per cui nonostante ci viva da quarant’anni è come se mi sentissi uno straniero».Vincenzo Campo ha origini siciliane. È nato a Giuliana, non distante da Palermo. Nella generica suddivisione dei siciliani taciturni e chiacchieroni, Campo appartiene a questa seconda schiera. Le sue parole sono inarrestabili e, confesso, faccio fatica ad arginarlo.Sei un fiume in piena di parole, aneddoti, storie. È un modo per proteggerti o rivelarti?«Intendi la predisposizione logorroica al racconto?».Intendo proprio questo.«In un punto ti do ragione: parlo troppo. Dipende daquel mare inesauribile di esperienze, tra il reale e il fantastico, che il libro rappresenta. Volevo intraprendere un mestiere che fosse, per quanto precario, la testimonianza di una civiltà dei lettori della carta in via di sparizione, e allo stesso tempo tornare alle radici di quell’avventura, quasi fossi l’improbabile reincarnazione di un Aldo Manuzio».Manuzio dedicò al libro energie e creatività, fino a toccare la perfezione.«Un uomo uscito dalla fucina del grande umanesimo, da quell’età tardo quattrocentesca in cui furono poste le basi per il lettore moderno».Un lettore oggi minacciato o assorbito da altri potenti mezzi di comunicazione.«So bene quanto il libro sia sotto assedio, ma la sconvolgente rivoluzione digitale in atto è anche il segno di una vitalità inedita, provocante, perfino insolita per chi quella rivoluzione non intenda subirla».Alludi a una sfida?«Se l’unità di misura è la mia storia direi di sì: una sfida dalla quale potevo uscire perdente».La tua storia ha inizio in Sicilia.«Sono nato a Giuliana, nel palermitano. Ancora oggi non so che paese fosse allora. Vi conducevo una vita della quale non rimpiango nulla e ricordo poco. La figura che resiste all’oblio è il nonno materno. Non era colto, non leggeva libri e parlava pochissimo. Ma le volte che sentivo la sua voce era come ascoltare un suono vicino al cuore. Faceva il commerciante, professione che mio padre ereditò».In cosa commerciava?«Granaglie, lino, un po’ di tutto. Avrei dovuto anch’io continuare nel solco di quella tradizione ma dopo il liceo scelsi di studiare filosofia a Palermo. Temevo qualche rimostranza familiare, ma mio padre non mi ostacolò. Ero vissuto, fino a quel momento, in unacasa senza libri. Fu la loro assenza a scatenare il desiderio di possederli. Mi riproposi che avrei fatto l’editore o qualcosa di molto simile e che l’unica città in grado di soddisfare quell’obiettivo fosse Milano».Vi arrivasti quando?«Nel 1984, sono perciò quarant’anni che ci vivo.All’inizio selezionai le case editrici alle quali inviare il mio curriculum. Fu un periodo deprimente costellato di rifiuti, di vedremo, di chissà, di la terremo senz’altro presente. Mi risvegliai da quel sogno dopo una mattina in cui mi diressi presso la sede della Bompiani. Giunsi fiducioso. Un guardiano all’ingresso mi chiese se avevo un appuntamento. Risposi che ero lì per lasciare la mia patetica biografia intellettuale.Scosse la testa e poi impietosamente disse: lasci stare tanto non la prenderanno mai e se proprio ci tiene infili quei fogli lì. Indicò una specie di piccolo sarcofago, una buca della speranza, dove capii non sarebbe affiorata nessuna buona notizia. Rinunciai al curriculum».Ma non a fare l’editore.«Misi il progetto in pausa, in attesa di tempi migliori.Nel frattempo si era aperta l’opportunità di insegnare italiano in una scuola tecnica. Pensavo: ecco il destino di un meridionale. Il meglio che mi poteva capitare era discettare di letteratura davanti a un gruppo di adolescenti annoiati. Mi resi conto che avrei dovuto tentare di scuoterli dal loro torpore».In che modo?«Mi dicevo: come puoi pensare di interessarli alla lettura se la prima cosa che gli vuoi imporre sono I promessi sposi oLa Divina Commedia? Capolavori, certo, ma ai quali si approda, non da cui si comincia.Così scelsi la via del divertimento. Insinuai che tra Lucia e Don Rodrigo c’era stata una storia di passione e che il miserabile prepotente al momento delle nozze si fosse tirato indietro».Don Rodrigo sposo mancato?«Era una provocazione, ma in fondo con la benedizione involontaria di Umberto Eco che fu spiritoso nel rileggere alla sua maniera Cuore di De Amicis. L’altra via fu inventare, per l’editore Morano di Napoli, una collana pop di una quarantina di titoli che andava da Ian Fleming a Carolina Invernizio e che rappresentò il mio ingresso nell’editoria scolastica.Poi Morano, nobilissimo editore che pubblicava anche testi di filosofia, fallì e a quel punto mi rivolsi a Elvira Sellerio».Come arrivasti a lei?«Scrivendole mi pare. La incuriosì che fossi un siciliano trapiantato a Milano. Elvira è stata la persona che mi ha insegnato cosa vuol dire essere editore».Puoi spiegarlo?«Più che un mestiere per me è stato un punto di approdo. Quanto al significato mi viene in mente un piccolo testo che pubblicai, di Valentino Bompiani, dove si legge la seguente definizione: il solo peccato che un editore si può concedere è l’eccesso di entusiasmo. Credo che Bompiani intendesse perdonarsi la pubblicazione di certi libri sbagliati».Per te quali sono i libri sbagliati?«Sono i libri che ami e che ti seducono sull’onda dell’entusiasmo, appunto, ma che alla fine ti deludono. Un libro non è poi tanto diverso da una persona. Si comporta come una persona che può essere leggera o pesante, invadente o discreta, affascinante o noiosa, prolissa o asciutta. A questo proposito Paolo De Benedetti, che aveva lavorato con Valentino Bompiani, diceva che gli unici libri che amava erano quelli che cadendo sui piedi non gli facevano male. Quest’uomo molto saggio, grande biblista, mi fece capire l’importanza della brevità».In effetti le tue collane sono composte spesso da libricini.«È un criterio, se non proprio una scala di valori, che ho seguito fin dall’inizio».La casa editrice quando è nata?«Nel 2009, in principio pensavo a un solo titolo l’anno, una piccola strenna ben curata che potesse presentarsi come un regalo. Scelsi un testo del poeta Raffaele Carrieri Il sabato del bibliofilo. Il libro non ebbe grande successo ma incuriosì alcuni lettori eccellenti e mi sentii abbastanza baldanzoso da creare la “Piccola biblioteca degli oggetti letterari”, una collana un po’ stravagante che aveva alle spalle il desiderio abortito di redigere personalmente un’enciclopedia».Redigere nel senso di scriverla?«Esattamente. Il progetto fantasticava attorno a un’intuizione di Alberto Savinio, che scontento delle enciclopedie esistenti decise di farne lui una nuova».Alludi alla Nuova enciclopedia.«Sì, un testo che Adelphi pubblicò nel 1977 e che si componeva di una serie di voci redatte da Savinio negli anni Quaranta, soprattutto per la rivista Domus.La mia enciclopedia di oggetti letterari volevo che iniziasse con la voce “abat-jour”, mentre Savinio comeprima parola aveva scelto “abatino” che era poi il cognome del marito di Joséphine Baker».Sei molto dettagliato ma perché iniziasti con “abat-jour”?«Perché una delle ultima frasi che Italo Calvino pronunciò, dopo essere stato colpito da ictus, fu “Je suis un abat-jour allumé”. Davvero singolare».Direi enigmatica.«Nel ricostruire queste ultime parole, provando a darne un senso, Gianni Celati si riferì alla circostanza che il calore emanato dalla lampada fosse analogo al bruciore che l’aneurisma stava provocando nella testa di Calvino. Oltretutto quella frase poteva anche rivelare l’esperienza patafisica che lo scrittore visse nel gruppo Oulipo».L’ultima voce quale avrebbe dovuto essere?«La parola “violoncello”: per tutta la vita Luciano Bianciardi si era trascinato ovunque andasse lo strumento che aveva studiato da giovane. In mezzo, tante altre voci. La più estesa sarebbe stata “scrivania”. Tutti gli scrittori ne hanno una. Ma poi ci sono quelle particolari. Philip Roth, raccontando del suo incontro con Primo Levi riferì il dettaglio che sulla scrivania dello scrittore c’era una foto dei reticolati di Auschwitz, e un pezzo del filo spinato che Leviconservò dalla prigionia. O la scrivania di Manganelli, costellata di Pinocchi. All’opposto ci sono scrittori senza scrivania come André Gide o Gadda, che a Firenze chiese a una signora un tavolo per lavorare e gli venne messo nella stanza un mobile che in realtà era una toletta per signora con specchiera. Gadda chiese di rimuovere lo specchio perché, disse, la sua immagine riflessa sarebbe stato d’impedimento alla scrittura».Alla fine rinunciasti a scrivere questo eccentrico libro ma ne rifondesti il contenuto nella prima collana.«Rinunciai perché qualcosa di simile aveva già fatto Gesualdo Bufalino; perciò preferii trasformare il progetto in una collana. Nella mia mente coniugavo il sogno enciclopedico di dare un ordine alle cose e la struttura del feuilleton. Come accadeva in quel genere di romanzi a puntate, anche. Una specie di feuilleton enciclopedico per bibliofili o aspiranti tali. Nei fatti, un’idiozia commerciale».Perché idiozia?«Non lo dico in senso dispregiativo. Come esistono le periferie urbane, così immagino le periferie letterarie. Luoghi ai margini, lontani dal clamore commerciale, dalle classifiche, dalle critiche. Provai perciò a pubblicare libri di cui si fosse persa la storia, già apparsi in passato ma spariti o dimenticati».Libri della memoria come la collana che Sciascia ideò per Sellerio.«Sciascia fu per me una presenza imprescindibile.Ma quando dico “memoria” penso alla voce che Savinio scrisse nella Nuova enciclopedia, dove pone la distinzione tra conoscere a memoria e conoscere attraverso il cuore. Così è per i libri che pubblico.Non vengono solo dalla mente, ma dagli affetti che il cuore genera. Dai sentimenti che il libro suscita. In questo senso affettivo so che la Henry Bayle deve molto a Ferdinando Scianna che mi ha aiutato in momenti difficili, a Tullio Pericoli e ai suoi “doni” editoriali – l’ultimo dei quali è uno straordinario volumetto dedicato ai volti – e poi a Renata Colorni, la cui grandissima esperienza editoriale mi è stata utilissima».Ti senti un’anomalia editoriale?«Un’eccezione nel senso in cui lo sono stati personaggi come Alberto Tallone o Vanni Scheiwiller, sì. Editori, certo, ma soprattutto artigiani del bello che resiste e non muore malgrado tutto. Anche l’aver dato alla casa editrice il vero nome di Stendhal, ossia Henry Bayle, dovrebbe suggerire che dietro al nascondimento di un nome c’è un’altra vita possibile, in questo caso letteraria, che vale la pena raccontare».