Robinson, 2 febbraio 2024
I problemi di una traduttrice
Ricordo sempre il luogo dove ho tradotto un libro. Posso perfino dimenticare qualche dettaglio della trama, ma nella mia memoria un testo a cui ho lavorato si associa a una stagione concreta, a una speciale condizione di luce, ai rumori di una città e di un paese. Per me questo è la prova che nel tradurre, come in ogni lavoro che si compie con la mente, opera sempre anche il corpo.Un tempo mi piaceva dire che un requisito essenziale per tradurre letteratura è avere buoni bicipiti, che servono a sollevare e spostare in continuazione i dizionari, ma adesso non è più così. Finora ho tradotto otto testi di Herta Müller e attualmente sto lavorando al suo ultimo libro, uscito in Germania nel 2023 e che in Italia sarà pubblicato, come gli altri, da Feltrinelli con il titolo Una mosca attraversa un mezzo bosco. I suoi testi, la sua lingua, la sua percezione della realtà mi accompagnano da quasi quindici anni. Se certe letture possono trasformarci profondamente, ciò è tanto più vero per i libri – certi libri – su cui si lavora.Ho iniziato a tradurre Herta Müller nel 2009. Un’autrice sconosciuta ai più e della quale era stato tradotto molto poco aveva appena vinto il Nobel. Il suo libro più recente, Atemschaukel(L’altalena del respiro), era stato pubblicato appena due mesi prima in Germania. Un’ora dopo l’annuncio della vittoria del premio, attraverso il suo agente mi era arrivata la richiesta di tradurne al volo per Repubblica un estratto che doveva uscire il giorno dopo. Il caso ha voluto che non ci fosse in quell’istante niente a impedirmi di buttarmi nell’azzardo, spinta da incoscienza e adrenalina.Avevo letto Herta Müller, certo mi sarebbe piaciuto tradurla, ma non avevo allora nessun progetto concreto su di lei. Nel giro di poco l’ho avuto: L’altalena del respiro, appunto. A quell’epoca abitavo a Ratisbona, in un appartamento a pochi passi dal Danubio. L’avevo subaffittato da una giovane coppia partita per un viaggio di un anno in India. Non mi dispiace affatto vivere nelle case altrui, cercare le parole tra oggetti non miei. Forse sento in questo un’affinità con il vivere nelle parole di altri? Quando non cercavo parole dentro le mura di casa lo facevo passeggiando fuori, lungo le sponde del Danubio e sul ponte di pietra del XII secolo che attraversavo ogni giorno. Era un inverno molto nevoso e freddo, e in città non conoscevo praticamente nessuno. Herta Müller era inaccessibile, qualsiasi domanda a lei doveva passare per la casa editrice tedesca.Un giorno ho trovato nella mia casella di posta una mail: latraduttrice ungherese di Herta Müller cercava altre persone che lavorassero a quel libro. È iniziato così uno scambio con una decina di traduttrici e traduttori, e le mail rimbalzavano dalla Germania all’Ungheria, alla Polonia, alla Francia, all’Ucraina e altrove. Si discuteva a proposito di un testo che ci richiedeva di esercitare coraggio di fronte alle invenzioni linguistiche dell’autrice, e ci si confortava a vicenda quando ci si sentiva oppressi dal senso di responsabilità e dall’ansia di imboccare strade sbagliate nel dare voce a un premio Nobel la cui voce solo pochi conoscevano. Si parlava delle possibilità e dei limiti delle proprie rispettive lingue, delle inevitabili trasformazioni che accompagnano il tradurre. Come succedeva per esempio nel caso dello Hungerengel tedesco che tormenta i deportati nel campo di lavoro, un termine composto ( da Hunger, fame, e da Engel, angelo) che nelle lingue neolatine doveva essere per forza scomposto e che in italiano è diventato l’angelo della fame. Se lo Hungerengeltedesco è un angelo che si specchia – anche foneticamente – nella fame, che tormenta ed è a sua volta tormentato, l’angelo italiano invece la fame la brandisce, come una spada. La preposizione è il suo braccio.Alla fine tutti noi traduttori abbiamo raccolto le domande e i dubbi ancora irrisolti e, attraverso qualcuno del gruppo che la conosceva personalmente, abbiamo fatto avere la lista a Herta Müller. In seguito anch’io l’ho conosciuta e in qualche occasione incontrata, e da allora le ho sempre scritto ogni volta che ho tradotto un suo libro. So che ha grande rispetto per i suoi traduttori e che si aspetta da loro lo stesso rigore che mette lei nella scrittura. Una volta mi ha detto di avere sentito leggere, durante un incontro in Canton Ticino, una pagina della mia traduzione di un suo libro e di essersi riconosciuta nel ritmo della pagina italiana. Mi sono sentita sollevata.