La Lettura, 2 febbraio 2024
Pino Cacucci e la rivoluzione messicana
Il «grande vendicatore» fu anche un educatore. Un avventuriero che assaltava le banche e poi magari scoppiava a piangere, che rubava il bestiame e fondava scuole per i contadini. Il Pancho Villa di Pino Cacucci, sublime narratore di mille storie messicane, è un eroe romantico e non patinato. Quella Revolución, la prima vera del Novecento, ha segnato la storia di tutta l’America Latina, forse più di altri movimenti molto celebrati in chiave ideologica. L’eroe di Cacucci vive in una grotta, braccato dall’esercito regolare e soprattutto dagli americani, che proprio per prenderlo (vivo o morto) hanno organizzato la «spedizione punitiva». I gringos non lo trovano, ma soprattutto non lo capiscono, lo considerano un masochista «se fosse rimasto con i suoi superiori oggi sarebbe un generale, o forse un ministro della guerra e invece è andato a crepare come un cane randagio chissà dove» dice George Patton, un ottuso tenente che alcuni anni dopo diventerà un generale che condusse le operazioni dello sbarco in Normandia e della battaglia delle Ardenne. Nel titolo del romanzo ci sono i protagonisti: Dieguito e il centauro del Nord (Mondadori). Dieguito è un adolescente, figlio di un contadino sospettato di ribellione. Il centauro è Pancho Villa che vive in una grotta nella selva, ferito a una gamba ma non domo, che sopravvive grazie alle cure che gli presta il ragazzino. I capitoli alternano le vicende degli anni 10 con i ricordi di Dieguito negli anni 80 che, ormai anziano, consegna alla nipote Adelita la memoria di quella storia di lotta alle ingiustizie. La testimonianza dell’«abuelo» non è vana: Adelita diventerà una cantante famosa, con un bagaglio culturale profondo.Se in Italia l’immagine del Messico non è soltanto quella delle bande dei narcos, molto merito ce l’ha proprio l’opera di Cacucci, che con centinaia di articoli, decine di libri scritti e tradotti ha messo in primo piano lo splendore di quella terra e la grande dignità di chi la abita: «A volte penso che i libri siano dei mezzi così limitati rispetto alla notizia efferata diffusa dalla televisione. Io ci provo, ma non so quanto possa incidere. Oggi scrivo meno e forse con l’età è più complicato andare contro i mulini a vento, ma mi piace pensare che raccontare il Messico della gente che mette davanti a tutto la dignità sia un ottimo motivo per scrivere».Cacucci, prima di addentrarci nella Revolución, facciamo una premessa: perché lei ama così tanto il Messico? Ci saranno mille motivi: ce ne dica uno soltanto.«Per il fatalismo della sua gente, che non è mai rassegnazione. Perché vedo le persone che, lontano dai riflettori, lottano per mettere l’etica davanti alla mera convenienza».Eppure sui giornali negli ultimi anni finiscono solo i capi dei cartelli del narcotraffico.«Lo so ed è un errore. Ci sono persone che conosco a cui ho chiesto, quasi implorando “potrebbero ammazzarti, perché non prendi precauzioni?”. La risposta è stata sempre la stessa: “Ma come altro potrei vivere?”. Ci sono tanti giornalisti che senza diventare famosi non smettono di informare. So che suonerà un po’ enfatico, ma è così: il sangue dei loro sacrifici, come per i maya e gli aztechi, fa germogliare questi semi che con la loro morte hanno tentato di piantare. Ecco, noi leggiamo le notizie dell’ennesimo massacro e delle fosse comuni, ma ci sono invece tante persone dignitose che continuano a non chinare la testa».In fondo questa grande dignità dei messicani ha solide origini nella storia nazionale, in particolare nella Revolución, di Emilano Zapata e Pancho Ville, brutale ma ricca di signficati.«È una rivoluzione più sociale che politica. Pancho Villa nel nord ed Emiliano Zapata nel centro-sud, con alcuni alleati, dicono “noi insorgiamo contro le ingiustizie"».Quando si parla di rivoluzione in America Latina la mente va quasi automaticamente a Cuba. Qual è invece la caratteristica della rivoluzione messicana?«Lo scopo non è prendere il potere, come altri rivoluzionari dell’America Latina. I loro nemici sono i latifondisti, si ribellano a un sistema che costringeva all’ignoranza i contadini».Rovesciarono un presidente, Porfirio Díaz.«Sì, ma lasciando poi ai politici e a quella nuova borghesia che stava nascendo il compito di amministrare. Fu proprio un messicano a dire che “la cosa peggiore che possa succedere a un rivoluzionario è di vincere la rivoluzione”, perché dopo devi gestire il potere».Cosa pensarono di fare Emiliano Zapata e Pancho Villa invece di comandare?«Questa, che è la prima rivoluzione del secolo, aveva un’idea diversa rispetto a quelle che arrivarono dopo. “Noi combattiamo, ma poi si faranno delle elezioni”. Loro si ritagliarono il compito di fare dei guardiani. E furono fatti fuori proprio per averci provato».L’etica nella storia è un concetto scivoloso, perché torna sempre nella biografia di Pancho Villa?«Il senso etico incarna tutta la sua vita. Pancho Villa ha accumulato ricchezze, nascondendo tesori. Ma li ha usati per aprire delle scuole, oltre che per le armi e le munizioni della sua guerra».Fu anche governatore.«Sì, del Chihuahua. Un’esperienza breve, ma interessante. Forse fu l’unico della storia messicana a non mettersi in tasca un centesimo. Fermò l’esportazione di bestiame, perché doveva servire a sfamare la gente e non soltanto per alimentare il commercio con gli Stati Uniti. Fu una parentesi che racconta molto della sua forza morale».Resta però un personaggio controverso. Paco Ignacio Taibo II, nella biografia che lei ha tradotto, lo definisce tra le varie cose “un rivoluzionario con la mentalità da rapinatore di banche”.«Pancho Villa assaltava la banche, certo, ma non erano rapine in senso classico. Dal suo punto di vista erano dei tributi da pagare alle città che il suo esercito aveva liberato. In Messico ancora oggi ci sono sedicenti storici che lo definiscono un volgare bandito, assassino senza scrupoli».Ci sono elementi di verità?«La storia dipende da chi te la racconta. Certo, quella messicana fu una rivoluzione molto cruenta, un milione di morti in un Paese allora molto meno popolato rispetto a oggi. Villa fu spietato nelle sue decisioni, ma non erano momenti in cui si potesse andare per il sottile. Io sono convinto che sia stato un uomo che quando ha commesso dei crimini non lo ha fatto per crudeltà».Nel romanzo compare anche Peppino Garibaldi, nipote di Giuseppe. Questi legami tra la storia messicana e quella italiana sono importanti?«Oggi da noi tutto è imbalsamato, ma non dimentichiamo che anche in Italia, Garibaldi da una buona fetta dell’opinione pubblica, spesso legata al clero e alle sue scuole, è stato considerato una sorta di depredatore di chiese e conventi più che un eroe nazionale. Certi miti, insomma, hanno prodotto controversie».Nel romanzo però c’è Peppino, non l’Eroe dei due mondi.«Sì, questo lo devo a un amico, Federico Mastrogiovanni, che da anni raccoglie materiale su questo personaggio. Un avventuriero che, persino più del nonno, ha attraversato decine di guerre e battaglie, spesso perse, dalla prima guerra mondiale, fino all’antifascismo. Peppino Garibaldi ebbe i gradi di colonnello nella Revolución, al pari di Pancho Villa, nella fase iniziale. La cosa che solo di recente ho scoperto che la Plaza Garibaldi di Città del Messico, famosa perché lì si radunano i mariachi, è dedicata a Peppino e non a Giuseppe».Altro capitolo imprescindibile della storia messicana è il rapporto con gli Stati Uniti. Anche Villa ci dovette fare i conti, prima come alleato e poi nemici.«Sì, gli americani ne subirono il fascino».Però Pancho Villa organizzò l’unica invasione straniera nel territorio statunitense.«Pensi che quando si arriva all’aeroporto di Chihuahua una delle prime cose che si vedono sono i souvenir di ritratti di Pancho Villa, con la scritta “l’unico che ha osato invadere gli Stati Uniti"».Si può parlare di invasione?«Invasione è una parola grossa, però non era mai successo che una forza a cavallo attaccasse una guarnigione nel territorio del Nuovo Messico».Perché lo fece?«La storia è lunga, ma si può sintetizzare».Prego.«Intanto c’è da dire che Pancho Villa diceva che quello fosse territorio messicano e fino al 1848 in effetti così fu. Lui era un vendicatore di torti subiti. Gli americani, dopo averlo blandito, gli rifilarono una partita di munizioni fasulle, che costò molti morti al suo esercito in una battaglia contro le forze di Carranza. Lui a quel punto mandò a Columbus un gruppo di suoi uomini per fare giustizia del mercante di armi, che però riuscì a scappare per tempo. Ci fu uno scontro armato con una guarnigione americana e anche dei morti, ma non certo un massacro».Gli americani però la presero male.«Altroché. Arrivarono in Messico con diecimila militari per la cosiddetta “spedizione punitiva”, formalmente figlia di un accordo con il governo messicano, con l’unico scopo di uccidere Pancho Villa. Questa missione dei “gringos” comporta che molte persone si avvicinino alla causa di Villa».Nel romanzo, il giovanissimo aiutante di Pancho Villa, Dieguito, intrattiene lunghi dialoghi con George Patton, che poi diventerà uno dei protagonisti dello sbarco in Normandia.«Sì, è il cuore di questo romanzo. Da una parte c’è un soldato americano con i tipici ideali di chi dice “noi vi portiamo la civiltà”. Dall’altra, un ragazzino messicano che aiuta Pancho Villa, mettendo a rischio la propria vita. Patton all’epoca era un giovane tenente della spedizione punitiva e non il generale a quattro stelle della seconda guerra mondiale, famigerato o eroico, a seconda dei punti di vista».Il rapporto del Messico con gli Stati Uniti è cambiato nel tempo o quella presenza incombente resta una costante nella storia messicana?«C’è sempre di fondo un istinto di rivalsa e di resistenza culturale. Oggi il Messico è molto americanizzato, le cose peggiori degli Stati Uniti arrivano prima lì che altrove. Da un punto di vista politica, il presidente Andrés Manuel López Obrador ha messo in chiaro alcune cose sulle armi e sulla droga».La guerra al Narcotraffico.«Le cose ultimamente stanno andando un po’ meglio. Ma quella non è una guerra messicana. La cocaina si produce molto più a Sud. In Messico c’è un passaggio fondamentale, ma non la produzione. Il presidente ha fatto presente che se gli Stati Uniti fossero più incisivi con le banche che riciclano i soldi dei cartelli e nel controllo del commercio delle armi, le cose forse sarebbero meno drammatiche. I messicani in fondo dicono, “voi statunitensi ci avete imposto la legge del mercato, ma la domanda di droga è soprattutto vostra"».