La Lettura, 2 febbraio 2024
Volponi poeta
Da parecchio tempo Paolo Volponi viene considerato uno dei narratori importanti del secondo Novecento italiano, al punto che anche il riferimento alla sola seconda metà del secolo sembrerebbe ormai stargli stretto. Il suo nome si lega anzitutto a romanzi come Memoriale, La macchina mondiale, che forse è il suo più bello, e Corporale (rispettivamente del 1962, 1965 e 1974); o magari, pensando a quel po’ di notorietà in più presso il grande pubblico, alla sua attività di alto dirigente d’azienda (prima Olivetti, poi Fiat), o ancora all’impegno politico, prima come senatore eletto da indipendente nelle liste del Pci, quindi nelle file di Rifondazione comunista, di cui nel 1991 è stato uno dei fondatori.
Capita allora che il Volponi romanziere sia così bravo da relegare quasi nell’ombra la sua opera in versi. Eppure, come si dice in casi come il suo, a tutti gli effetti è nato poeta. All’uscita di Memoriale aveva già pubblicato tre raccolte di poesia, di cui due per editori importanti: L’antica moneta da Vallecchi nel ’55 e Le porte dell’Appennino da Feltrinelli nel ’60 (il libro d’esordio, Il ramarro, era uscito nel ’48 presso l’Istituto d’Arte di Urbino).
Ma non è solo questo. Il fatto è, piuttosto, che la poesia lo accompagnerà sempre, dall’inizio alla fine e in qualsivoglia direzione: sia perché continuerà a scrivere versi fino agli anni più tardi (è mancato nell’agosto del 1994), sia e ancor più perché visceralmente poetico è il nucleo della sua ispirazione, che si tratti dei versi o della prosa narrativa, degli interventi critici o saggistici e perfino di quelli di natura politica. Di fatto, in Volponi la poesia penetra dappertutto. Ma la poesia, s’intende, non considerata in senso stretto come arte del verso, bensì come forza generativa e motore delle cose, come crogiolo ad altissima temperatura in cui percezioni e ragione, immaginazione e senso dei fatti, parole e cose danno luogo a qualcosa d’inedito, creando, suscitando, edificando. Basti dire che Albino Saluggia, Anteo Crocioni e Gerolamo Aspri, vale a dire i tre protagonisti e voci narranti dei romanzi ricordati sopra, «sono in vario modo», con le parole di Emanuele Zinato, «memorialisti d’invenzione, pendolari fra paesaggio naturale e industriale, inclini alla testimonianza, all’invettiva e, soprattutto, alla poesia». Sono infatti individui ossessivi e ipersensibili, visionari dotati di un immaginario estremamente fertile e reattivo. I loro stessi nomi, del resto, sono già una poesia. Potrebbero perfino essere definiti degli strambi, dei lunatici, dei santi scemi, se non fosse che portano con sé una singolare attenzione alla realtà circostante, una competenza specifica in materia, la considerazione non solo della realtà nelle sue scaturigini basiche e telluriche, ma anche della vita associata e della sua organizzazione, dei meccanismi produttivi e, più in genere, di tutto quello che s’intende per sovrastruttura.
In occasione del centenario della nascita dello scrittore (il 6 febbraio 1924, a Urbino), giusto a cura di Zinato, che del resto è il più autorevole dei suoi studiosi e interpreti, è stata riproposta da Einaudi una nuova silloge dei versi di Volponi. S’intitola semplicemente Poesie, consta di più di cinquecento pagine e di fatto sostituisce il volume omonimo che lo stesso Zinato aveva curato sempre per Einaudi nel 2001. Come in quest’ultimo, dove fungeva da prefazione, vi si può trovare in calce anche un bel saggio di Giovanni Raboni, che di Volponi è stato non solo uno dei più entusiasti e prestigiosi ammiratori, ma anche «molto amico», come sarà lui stesso a dichiarare in una tarda poesia scritta dopo la sua morte («Ma ricordo anche lo sgomento,/ l’amarezza, il disgusto/ nella voce di Paolo Volponi/ appena si seppero i risultati/ delle elezioni del ’94»).
In queste Poesie il lettore potrà trovare quasi tutta l’opera in versi dello scrittore urbinate, da Il ramarro, rappresentato integralmente, alle due ultime raccolte pubblicate in vita: Con testo a fronte (edito da Einaudi nel 1986; non sono in pochi a considerarlo, col suo impaziente andamento affabulatorio e cantilenante, il suo libro di poesia migliore; altri gli preferiscono invece la più equilibrata vocazione costruttiva dei poemetti delle Porte dell’Appennino, composti al tempo degli stretti contatti di Volponi con Pier Paolo Pasolini e con gli altri poeti delle rivista «Officina»), quindi da ultimo il più cupo e disilluso Nel silenzio campale (è uscito per Manni nel 1990). Ma sono presenti anche diversi inediti recuperati qui e là tra le carte dello scrittore o da qualche pubblicazione sparsa. Tra l’altro non si tratta di testi trascurabili. Al contrario, alcuni appaiono piuttosto belli e uno in particolare anche molto bello. Datato 1970 e dedicato alla nonna paterna nonché alla sua discendenza da Apecchio, un «paese dell’Appennino», è un’elegia singolarmente gioiosa e anche un po’ giocosa, che dice tra l’altro così: «Non era mai ovvio e banale per lei/ che il suo paese animale e il suo/ uomo e ogni altro bene esistessero/ vivi in ogni momento e pensiero/ come in ogni atto e parola/ e che tutto fosse rivolto al bene/ come il giorno e la notte/ sopra il cielo di Apecchio / e sopra ogni altro specchio».
C’è sempre questo miraggio in Volponi, che poi è insieme anche un retaggio, perché sta dietro o dentro, come qualcosa che covi nel sangue, ma al contempo anche davanti, come un ultimo orizzonte, come un progetto ch’è anche un’utopia, in quanto deve comunque essere costruito con intelligenza e passione dalle donne e dagli uomini di buona volontà. In questo caso la figura della nonna fa capire di che cosa si tratti. L’integrità e la dignità dell’essere, uno stato condiviso di plenitudine, la sacertà della vita, la giustizia, l’uguaglianza, la felicità? Forse un po’ tutto questo insieme. Altrove lo scrittore parla anche di «uomo intero», avendo in mente lo stato di perfetta integrazione tra l’individuo e la vita, tra il singolo e il creato, figurato nell’arte e nell’architettura rinascimentali, a partire dalla sua stessa città, Urbino, da questo punto di vista forse la più edenica e mirabile di tutte.
Questo afflato verso una composizione armonica della nostra vita non solo attraversa ma, alla lettera, dà adito all’intera opera di Volponi, che per altro tanto più col procedere del tempo appare tormentata, piena di paure e rovelli irrisolti, di frustrazioni e rabbie, di fratture psichiche, di delusioni storiche, di ferite personali (tra cui, non rimarginabile, la perdita del figlio Roberto in un disastro aereo). E anche i suoi libri più tardi, dove per altro il tono del discorso non è meno appassionato e deciso di prima (Volponi è uno di quegli scrittori di cui si sente sempre la voce che parla), testimonieranno anzitutto l’estinzione di questo sogno individuale e comunitario, con tutta la fiera speranza che l’animava. È allora l’eterna tensione (eterna in quanto antropologicamente distintiva) tra la natura e la cultura, tra la spinta del corpo, delle percezioni, dell’eros, e la ragione, il progetto, la costruzione, l’artificio, la scienza, la conoscenza. In fondo in questo poeta che come pochi aspira all’unità, a parte alcuni momenti di euforia e pienezza creaturale tutto risulta estremamente diviso. Ma è appunto su questa frattura che s’innesta la sua poesia: la faglia che divide l’io da sé stesso, l’universo naturale (è un poeta di piante e animali, soprattutto uccelli) da quello industriale, la più arcaica civiltà appenninica dal mondo dell’innovazione tecnico-scientifica, l’antico borgo dalla metropoli, al punto che progresso e regresso, paradiso e inferno tante volte sembrano scambiarsi le parti. Del resto, che si trattasse di una guerra con poche e tanto più irrinunciabili stazioni di tregua e di gioia, il poeta-guerriero lo aveva capito molto presto. Lo ha anche scritto a chiare lettere nel poemetto intitolato Il cuore dei due fiumi: «Difficilmente vive/ un uomo con due voci / un uomo con due sere,/ tra selve e campi mietuti».