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 2024  febbraio 02 Venerdì calendario

Il miglior compositore dell’anno è nato a Siracusa

L a notizia della nomina a miglior compositore dell’anno gli è arrivata il 18 gennaio. A Orazio Sciortino (Siracusa, 1984) – pianista e direttore d’orchestra oltre che compositore – è andato uno dei 26 premi della nuova edizione degli International Classical Music Awards. La giuria presieduta da Remy Franck, fra le motivazioni del riconoscimento, cita «una scrittura musicale libera da vincoli, aperta alle suggestioni della modernità, ma sempre fortemente personale e riconoscibile». Sciortino definisce questo riconoscimento, oltre che lusinghiero, «un segnalibro nel percorso che ho svolto finora. Alle soglie dei miei quarant’anni, dopo venti di attività».

La sua figura è atipica nel mondo dei compositori italiani.
«Metà della mia attività è dedicata al pianoforte. Le commissioni che ricevo, spesso ma non sempre, mi coinvolgono inoltre come interprete e direttore d’orchestra. Cito su tutte La Gattomachia, la mia favola musicale del 2017, eseguita già una trentina di volte».
Com’è il mondo della musica contemporanea in Italia?
«Un mondo con un mercato piccolo».
Purtroppo...
«Certo, certo, purtroppo. Tutte le realtà italiane in questo campo, se sommate insieme non superano quelle di singole città, come Berlino, Parigi...».
Cosa manca da noi?
«In Italia continua a mancare una strategia in grado di guardare avanti. Manca una rete fra compositori, editori e committenze. Un giovane fa molta fatica ad affermarsi. All’estero un venticinquenne può avere anche esecuzioni importanti, per esempio nella stagione concertistica dei Proms londinesi: il sogno di tutti i giovani compositori».
A proposito di estero, lei ha inciso la musica di Carl Philipp Emanuel Bach (quinto e più famoso dei venti figli di bach) con la tedesca Hännsler Classic e il disco è stato nominato sempre per gli International Classic Music Awards.
«Hännsler, grazie alla sua apertura, ha sposato subito la mia proposta. Il mio è un approccio diverso rispetto a quello in cui normalmente viene relegata la musica di Carl Philipp Emanuel Bach».
Viene eseguita infatti dagli specialisti di musica antica. Com’è il suo approccio da esecutore?
«Guardo la musica con l’occhio del compositore, quindi con uno sguardo analitico, ma al tempo stesso cerco un rapporto diretto con il pubblico. Chi compone non dovrebbe sacrificare lo pneuma, quello che gli antichi chiamavano il soffio dell’esecuzione, che è poi quello che manca spesso nella musica contemporanea».
Lei unisce l’aspetto interpretativo a quello analitico del compositore.
«In questo senso penso spesso a Luciano Berio. Condivido il suo pensiero».
Il suo percorso per arrivare dove è arrivato è stato semplice o burrascoso?
«Ho nuotato tra le onde in un mare in tempesta. Non vengo da una famiglia di musicisti e non vengo nemmeno dal luogo più musicale del mondo. Non sono nato a Vienna, né a Parigi, né a New York... Sono nato a Siracusa, dove però ho respirato un Dna greco».
Cosa l’ha fatta innamorare della musica?
«Non saprei... Una mattina mi sono svegliato, mi sono fatto regalare una tastiera giocattolo e ho cominciato a suonare».
Il suo primissimo insegnante?
«Un fisarmonicista di liscio, che mi fece giocare con la musica. Io poi presi un quaderno “pentagrammato” e cominciai a scriverci sopra le note».
Cosa le ha lasciato questo maestro?
«Attitudine alla percezione del gioco e della libertà. In sintesi direi che mi sono avvicinato alla musica per gioco».
Ci parla delle trascrizioni per pianoforte che ha inciso nel doppio disco (Sony) con quelle che Franz Liszt fece di lavori di Giuseppe Verdi e Carl Tausig di Richard Wagner?
«Nella trascrizione e in questo i pianisti-compositori nella storia, a partire da Liszt, proseguendo con Ferruccio Busoni, Béla Bartók fino a Leonard Bernstein, insegnano che studiare una partitura è riappropriarsi del linguaggio attraverso l’atto della trascrizione, che non è solo una reinvenzione cosciente su partitura scritta da altri, ma è anche un’indagine profonda su sé stessi che si fa attraverso il lavoro altrui. In fondo, quando Berio trascriveva Franz Schubert e Johann Sebastian Bach, alla fine emergeva sempre ciò che Berio pensava di quei compositori».
Una curiosità. Ma come è arrivato a incidere la musica del compositore e pittore lituano Mikalojus Konstantinas Ciurlionis (1875-1911), che quasi nessuno conosce?
«Talento sfaccettato e multiforme il suo. La Fondazione Mazzotta nel 2010 gli dedicò una mostra a Milano e mi chiese di elaborare un progetto. Ai suoi brani ne accostai altri di autori a lui vicini, come Aleksandr Skrjabin e Alban Berg».

Che cosa non sopporta in musica?
«Non ho preconcetti, né mi sento di essere censorio nei confronti della musica di cui non condivido l’estetica, ma ci sono ragioni di retorica del discorso musicale che ritengo imprescindibili quando si compone».
Quali?
«Per esempio meccanismi di tensione e distensione, di comunicazione di un pensiero al di là di un certo grafismo in cui spesso la musica contemporanea cade, crogiolandosi in un estetismo visivo che spesso non corrisponde a un’efficacia comunicativa».
Una sua definizione di compositore?
«Una specie di albero che si nutre degli stimoli che la natura gli offre».
Cosa la stupisce della sua musica?
«Auto-analizzandomi ho trovato a volte al suo interno tracce di musiche, una volta di progressive-rock, che non conosco nemmeno bene».
Compositori che la incuriosiscono?
«Mi attirano alcuni nordeuropei: la finlandese Lotta Wennäkoski (1970), gli svedesi Mats Larsson Gothe (1965) e Anders Hillborg (1954). Musica lineare, molto chiara, senza autocompiacimento, che da noi inspiegabilmente non arriva. L’Italia è un Paese chiuso, con preconcetti ideologici, siamo troppo ingabbiati nelle nostre tradizioni».