La Lettura, 2 febbraio 2024
De Gasperi a teatro
«Un uomo dalle molte vite. Parlamentare dell’Impero austro-ungarico, difensore del meridione italiano di quell’impero, poi parlamentare italiano, perseguitato dalle camicie nere per vent’anni, traghettatore dell’Italia dal fascismo al nuovo mondo della guerra fredda. Un uomo che volle, fortissimamente volle, credere nel popolo e nella democrazia». È con queste parole che la drammaturga Angela Demattè introduce il protagonista del suo nuovo testo, De Gasperi: l’Europa brucia, al debutto in prima assoluta al Teatro Sociale di Trento (1-4 febbraio), poi in tournée. Lo spettacolo, diretto da Carmelo Rifici, è interpretato dallo straordinario premio Ubu Paolo Pierobon.
«In questo allestimento – spiega l’autrice – indaghiamo il periodo che va dal 1946 al 1954, anni della creazione del Patto atlantico e ultimi della vita dello statista (1881–1954). In scena anche altri quattro personaggi: Maria Romana, prima delle sue quattro figlie e sua segretaria personale; il suo antagonista Palmiro Togliatti; l’ambasciatore americano James Clement Dunn e un ragazzo di Matera. Attraverso i dialoghi entriamo nel dilemma della democrazia occidentale e lo scopriamo radicato nelle origini stesse della nostra civiltà. Mi ha colpito molto rilevare che la struttura del Patto atlantico ricalca il mito di quello imposto da Tindaro, padre di Elena di Troia, come garanzia di pace tra i principi greci. Tutti desiderano Elena. Per tutelare la pace promettono di allearsi con il marito che lei sceglierà. Scenderanno in guerra se qualcuno la rapirà a lui. Ma i patti per la pace diventano pretesti per la guerra. Elena nel mito non ha voce. Così come la vecchia Europa non ha voce tra i potenti della guerra fredda. Di questo De Gasperi si accorgerà tardi».
Dalla fine del secondo conflitto mondiale, il politico si battè per l’unità europea nella convinzione che fosse l’unico modo per prevenire futuri scontri. Nella creazione di Demattè, osserva il protagonista Pierobon, «è un essere umano, un politico, un padre costituente colto nei momenti di elaborazione e di stesura dei suoi discorsi pubblici, nel suo laboratorio mentale di retorica politica. I suoi discorsi a Parigi, Cleveland, Ottawa sono banchi di prova, verifiche cariche di tensioni e aspettative. Prima confinato per quindici anni come antifascista nella biblioteca del Vaticano, poi capo del governo italiano in un momento di emergenza economica, la devastante miseria del dopoguerra. Deve chiedere soldi agli americani e accettare di scendere a compromessi. Uno su tutti: il Patto atlantico. Un montanaro colto, autentico cattolico, obbligato a destreggiarsi tra il presidente Usa Truman, il segretario di Stato James Francis Byrnes, Pietro Nenni, leader storico del Partito socialista, Palmiro Togliatti, segretario del Partito comunista, l’Unione Sovietica e l’agognata Comunità europea di difesa».
La suggestione iniziale del lavoro, riprende Demattè, è partita dal linguaggio di De Gasperi. Tra il suo discorso alla Conferenza di pace di Parigi nel 1946, davanti alle delegazioni dei 21 Stati vincitori del secondo conflitto mondiale («Prendendo la parola in questo consesso mondiale sento che tutto, tranne la vostra personale cortesia, è contro di me») al suo ritorno dal viaggio in America pochi mesi dopo, c’è un salto. «De Gasperi, cresciuto in una valle di montagna – precisa la drammaturga —, educato all’umiltà e alla correttezza, ha dovuto venire a patti con i compromessi che la gestione del potere richiede. Ho cominciato a indagare dalle conseguenze di questo suo dramma interiore. Rifici ha accolto il rischio di questa indagine e l’abbiamo condivisa. Entrambi cerchiamo con il teatro di schiudere porte di comprensione. Personalmente capire qualcosa di più dei meccanismi di potere mi solleva, o forse mi fornisce strategie maggiori per stare al mondo. Anche io, come De Gasperi, sono cresciuta in un paese di montagna».
Due sono gli obiettivi che lo spettacolo si prefigge, specifica Rifici: «Portare un pezzo di storia a tutti quelli che non la conoscono. E chiedersi a che punto siamo con la nostra democrazia. Partendo dal racconto della sua nascita, osservare come essa è strutturata, le differenze tra quel prima e il nostro dopo. Leggere il presente attraverso uno sguardo al passato. Dal 1945 a oggi viviamo in un altro mondo, non spetta a me dire se migliore o peggiore. Ma il linguaggio stratificato e complesso di quella politica si è ridotto al misero “politichese” di oggi. Non bisogna però avere paura della complessità. Il nostro è sì uno spettacolo di storia, ma prova a restituire anche una temperatura emotiva, non solo di comprensione della situazione geopolitica dell’Italia e dell’Europa raccontata in scena». L’elemento che degli uomini di quella generazione ha colpito Pierobon «è il contegno, la dignità ben presenti nella loro postura fisica sempre composta, pronta, solida. Ho cercato di lavorare anche su queste differenze con il mondo dell’oggi dove spesso l’adolescenza finisce a 40 anni. Quelle facce lì, oggi, non esistono più. È avvincente interiorizzare parole e sintassi, strategie retoriche di quei tempi e restituirle in una dimensione quasi onirica, come un ricordo lontano, smaltato, pionieristico della Prima Repubblica. Non è cinema, non è un biopic. È un’ipotesi su De Gasperi». Un’ipotesi che Rifici non ha avuto dubbi ad affidare alla straordinaria versatilità dell’attore. «Da anni cerchiamo di incrociarci in scena – sottolinea il regista —, quando Demattè mi ha proposto il testo ho subito pensato a lui. Per provare a tratteggiare una figura come De Gasperi, lasciando filtrare ciò che un’ora e mezzo di spettacolo non può contenere, hai bisogno di un attore della statura di Paolo. La sua matrice veneta e contadina lo avvicina al linguaggio diretto, senza circonvoluzioni, del trentino De Gasperi. Grazie poi a un certo cinema d’autore, penso ai film di Bellocchio e Martone, Paolo è riuscito a entrare nei meandri di alcune figure della storia italiana portando la sua esperienza nello spettacolo. Che non è un’agiografia del personaggio, ma mostra grandezza e differenza rispetto agli altri protagonisti».
«Credo che sia importante raccontare quest’uomo per capire cosa sarebbe successo in Italia se non ci fosse stato De Gasperi – riflette Pierobon —. Un esercizio alla Philip Dick tipo La svastica sul sole. La storia non si fa però con le ipotesi, il teatro sì». Mentre Demattè conclude: «Lo psicoanalista Bin Kimura sosteneva che la vera democrazia risiede nella pazienza dell’incompiutezza. Mi pare che De Gasperi abbia avuto questa pazienza, conosceva il pericolo della dittatura. La sua sobrietà non gli ha permesso tuttavia di vedere che stava aprendo la porta a un nuovo totalitarismo, quello capitalista. È Pasolini a rilevarlo per primo: il film Rabbia inizia con i funerali di De Gasperi».