Avvenire, 1 febbraio 2024
Campioni, vittime e ribelli del nazifascismo
Un cattivo pensiero ci coglie mentre osserviamo passare il carro del vincitore, quello di Jannik Sinner, stracarico di uomini e donne di potere. Pensate per un attimo se questo giovane campione fosse vissuto al tempo del nazifascismo, di sicuro dopo il trionfo allo slam australiano sarebbe stato ricevuto dal Duce, Benito Mussolini, che lo avrebbe immediatamente elevato al massimo rango di “atleta di regime”. La Premier Giorgia Meloni si è limitata a un selfie di Stato, con Mussolini invece l’altoatesino sarebbe diventato la racchetta del fascismo.
Jannik si legga la storia di Von Cramm
Un orrore quello paventato sopra, che per fortuna la storia ci ha evitato. Mentre al suo storico collega, il nobile Gottfried Von Cramm, toccò ribellarsi per evitare quella investitura di “tennista del nazismo”. Adolf Hitler non poté che salutare come un trionfo di tutta la Germania la vittoria del primo slam da parte di quel “Barone” alto, bello e biondo, degno alfiere della razza ariana. Accadde nel 1934 agli Internazionali di Francia: Von Cramm in finale si sbarazzò dell’australiano Jack Crawford e a quel punto il Führer, su consiglio dell’appassionato di tennis, il luogotenente Hermann Göring incominciò a seguirlo come un trofeo umano da esibire al mondo. Le leggi razziali in Germania erano entrate in vigore dal 1933 e tra gli ebrei non graditi al regime figurava anche il tennista Daniel Prenn, compagno di doppio di von Cramm. Un motivo in più per sottrarsi a quel l ruolo scomodo di rappresentante dello sport nazista che invece il pugile Max Schmeling aveva accettato con lo stesso impeto con cui nel ’36 si era sbarazzato sul ring del “bombardiere nero”, l’americano Joe Louis. Schmeling ebbe l’onore di avere Hitler come testimone di nozze, Von Cramm, invece da numero due del mondo del tennis ben presto divenne l’ultimo cittadino tedesco. Una telefonata con gli auguri intimidatori di Hitler ricevuta proprio mentre scendeva in campo per affrontare la “partita del secolo”, la finale di Coppa Davis contro l’americano Don Budge, cambiò il suo destino. La sconfitta di Von Cramm e la conseguente umiliazione per lo sport nazista andava sanata con l’oltraggiosa accusa di omosessualità e la reclusione. In carcere Von Cramm ricevette molte lettere di solidarietà, ma quella che più lo colpì fu la missiva di Budge che si rifiutava di tornare a giocare in Germania per protesta «contro il trattamento riservato dal regime nazista al grande Von Cramm». Di tutti i titoli conquistati in carriera (45 tornei vinti), il Barone del tennis fino alla morte (avvenuta nel 1976) conservò quella lettera come il trofeo più importante della sua vita.
Bottecchia, il re del Tour ucciso dai fascisti
Sotto il cielo di Parigi dove fu incoronato re del tennis Von Cramm, cento anni fa, nel 1924, per la prima volta il padrone del Tour de France fu un italiano, Ottavio Bottecchia. L’anno dopo Tavio, come lo chiamavano al suo paese nel trevigiano, era nato a San Martino di Colle Umberto, concesse il bis e allora per i francesi divenne il mitico Botescià. E anche lui, come Von Cramm, non si piegò alle assurde logiche di regime, così il 3 giugno 1927 uscito per allenarsi in sella alla sua bici venne trovato esanime nel tratto di strada bianca tra Cornino e Peonis, frazione di Trasaghis, la zona dove era solito allenarsi. Qualcuno gli aveva teso l’agguato e deciso che la sua corsa doveva finire lì, a 33 anni. Non un delitto ordito dall’alto, come quello del segretario del Partito Socialista, Giacomo Matteotti, assassinato per volere del Duce il 10 giugno 1924, ma il mistero della fine del campione, morto anche lui di giugno, il 15 (dopo dodici giorni di agonia) lo risolsero due sacerdoti: don Nello Marcuzzi che andò in visita all’amico ammalato e don Dante Nigris, parroco di Peonis. Don Dante, il prete che aveva dato l’estrema unzione a Bottecchia trovato agonizzante vicino alla cascina di un contadino nel colloquio con don Nello, pubblicato riportato fedelmente dallo studioso Enrico Spitaleri, nel suo introvabile, libro-verità Il delitto Bottecchia (Pellicani 1987) rivelava: «Ottavio è morto per i suoi ideali politici. Quel giorno ad ucciderlo fu una squadra di fascisti che voleva dargli una lezione».
La Nazionale del Duce sul tetto del mondo
Mentre la “lezione” a Bottecchia si trasformò in tragedia, nel ’34 in pieno regime fascista, l’Italia del tenente degli Alpini Vittorio Pozzo dava lezioni di calcio a tutto il mondo. I Mondiali in Italia del 1934 furono la migliore opera di propaganda alla quale il Duce potesse aspirare. «L’Italia fascista deve tendere al primato sulla terra, sul mare, nei cieli, nella materia e negli spiriti», proclamava Mussolini. Ma il ct Pozzo non era veramente allineato. «Ci parlava della patria e della famiglia e ci faceva cantare La canzone del Piave», ricorderanno i suoi giocatori ai quali Mussolini aveva chiesto tassativamente: «Vincere!». Compatta e ardita, l’Italia vinse la finale contro la Cecoslovacchia diventando per l’opinione pubblica la “Nazionale di Benito Mussolini“. Eppure tra quegli azzurri, solo due erano dichiaratamente fascisti e iscritti al Pnf: Eraldo Monzeglio, un habitué di Villa Torlonia, amico dei figli del Duce, Vittorio e Bruno, di cui era anche maestro di calcio e di tennis e Attilio Ferraris (IV) «còre dè Roma». Quest’ultimo pare fosse stato imposto dal segretario del Pnf Achille Starace, in realtà Pozzo credeva nelle doti tecniche di quel mediano al punto da spingersi a ripescarlo in una bisca di Borgo Pio dove annegava le giornate tra bevute e il vizio del gioco. Allo stadio dell’Urbe (oggi il fatiscente Flaminio), i due furono tra i più applauditi con il “balilla” Meazza, e ad esultare al cospetto dei 50mila cuori tricolori in tribuna c’erano anche le principesse di casa Savoia, Maria e Mafalda. Quest’ultima, seduta non molto distante dal Duce, per l’occasione di bianco vestito, avrebbe avuto in sorte un epilogo tragico quanto quello di Mussolini e Claretta Petacci: morì il 28 agosto del 1944 nel lager di Buchenwald.
Bruno Neri, il “gran rifiuto” del calciatore partigiano
Il 10 luglio del ’44 cadde da martire della Resistenza l’azzurro Bruno Neri. Il mediano della Fiorentina che per tre volte r ispose alla convocazione in Nazionale di Pozzo, già il 10 settembre 1931, giorno dell’inaugurazione dello stadio Giovanni Berta (dedicato al giovane squadrista ucciso dai comunisti nel 1921) aveva espresso tutto il suo dissenso compiendo il “gran rifiuto”: davanti alla tribuna gremita dei gerarchi fascisti fu l’unico dei calciatori schierati a centrocampo a non fare il saluto romano. Il coraggio del futuro vicecomandante del Battaglione Ravenna, nome di battaglia il Berni. Bruno Neri assieme al compagno partigiano “Nico” (Vittorio Bellenghi) morì eroicamente all’eremo di Gamogna colpiti a morte in un conflitto a fuoco con i tedeschi. Pagò con la vita, nel ’39, anche il “Mozart del calcio”, il bomber del Wunderteam austriaco Matthias Sindelar che si rifiutò dopo l’Ansclhuss di giocare per la nazionale nazista. Morì assieme alla compagna, l’ebrea Camilla Castagnola, che da Milano l’aveva raggiunto a Vienna dopo la promulgazione delle leggi razziali del ’38: l’anno del bis mondiale degli azzurri di Pozzo in Francia e della vittoria del Tour de France di Gino Bartali riconosciuto come “giusto tra le nazioni” allo Yad Vashem di Gerusalemme per aver salvato centinaia di ebrei con i documenti falsi trasportati in bici nelle tappe che corse da campione d’umanità, da Firenze ad Assisi. Sul podio parigino Ginettaccio si guardò bene dal dedicare la vittoria a Mussolini e da hombre vertical alzò il braccio non per il saluto fascista ma per farsi il segno della croce ringraziando il Signore. Il Duce grazie a questi successi italiani nel ’38 era all’apice, e dopo aver ricevuto due anni prima la Nazionale di calcio campione olimpica ai Giochi di Berlino 1936, si spacciava non solo per un gran tifoso del pallone, ma anche per «provetto pedatore». Manlio Cancogni, scrittore e grande memoria di cuoio, ha stoppato per sempre anche questa diceria: «Mussolini provò una volta a farsi ritrarre in posa da calciatore, ma era impacciatissimo».
Carnera, da supermassimo a “colosso d’argilla”
Il Duce, anche per ragioni fisiche era più avvezzo alla lotta e soprattutto amava la nobile arte del pugilato. Per questo il suo ideale di atleta divenne il “gigante di Sequals”, Primo Carnera: 203 centimetri di altezza spalmati su 118-120 kg. «Il fascismo amava specchiarsi in quella muscolarità mastodontica e rispettata», scrive lo storico dello sport Remo Bassetti. La retorica di regime fu irrefrenabile dopo i successi americani di Carnera: nel 1930 conquistò 24 vittorie per ko su 25, sulle quali però pesava anche la mano truffaldina del clan di Al Capone, abile nel truccare i match. Prima di mandare al tappeto Jack Sharkey («con i guantoni che sembravano imbottiti di pietre») e conquistare la fantomatica corona mondiale dei supermassimi creata apposta per lui, Carnera visse la tragedia della morte di Ernie Schaaf, caduto al 13° round, sotto i suoi colpi, sul ring del Madison Square Garden di New York, il 10 febbraio1933. Tornò in Italia per difendere la corona mondiale contro il basco campione d’Europa, il «molosso» Paulino Uzducum e in 70mila accorsero a Piazza di Siena per l’adunata sportiva capitanata da Mussolini, fiero più che mai per aver pagato il biglietto «come un qualsiasi cittadino italiano». I giornali all’indomani della vittoria, scontata, incensarono ancora il gigante di Sequals» che però un anno dopo, si trasformò nel “colosso d’argilla”: il 14 giugno 1934, nel drammatico incontro con Max Baer subì l’umiliazione della sconfitta netta dopo 10 atterramenti. A quel punto l’eroe italico venne cancellato. Il gigante buono negli Usa si ricostruì un’identità, anche sportiva, da pioniere del wrestling, ma a morire volle tornare nella sua Sequals, dove si spense nel 1967. Per gli americani era rimasto il ciclopico boxer del fascismo, ma i figli Giovanna e Umberto hanno strappato via quella pagina nera, riscrivendo la vera storia del loro amato padre, al quale in Florida hanno intitolato la Primo Carnera Foundation che si occupa di giovani in difficoltà ed emarginati. Due categorie che tutti i regimi fascisti hanno sempre discriminato, e continueranno a farlo.