il Giornale, 31 gennaio 2024
Così Milano ha perso la sua anima
Che ne è, oggi, di Milano? Ah, Milano è bellissima, oggi.
Da tempo l’hanno rimessa a nuovo. Porta Venezia, per dire, quand’ero ragazzo era quasi una zona malfamata: oggi sono case da gran signori. Là dove c’era la vecchia Fiera, poi, al Portello, oggi c’è CityLife, che è una meraviglia. E l’Isola? Era la roccaforte della ligéra, la malavita che aveva una regola: si ruba ma non si fa male a nessuno. Quando ho cominciato a fare il cronista, avevo come vicino di banco un vecchio nerista, si chiamava Aldo De Gregorio mi ricordo ancora, anche perché fumava una Nazionale dietro l’altra e quando tornavo a casa la sera dovevo mettere i vestiti sul balcone. Era un gran signore, l’Aldo. Mi raccontava che una sera, all’Isola, un ladro che stava scappando sui balconi delle case di ringhiera si era girato all’improvviso e tac, aveva tirato una coltellata nella pancia a uno sbirro e l’aveva accoppato, e allora tutti i ladri del quartiere si erano dati da fare per denunciarlo e consegnarlo alla giustizia, perché nella ligéra la regola era che non si ammazza un poliziotto. Oggi l’Isola è piazza Gae Aulenti, il Bosco Verticale, i grattacieli.
E il viale Monza, che una volta era periferia, campagna, le rotaie del tram che andava su fino a Carate Brianza? Oggi si chiama alla newyorkese, NoLo, Nord Loreto, ed è di gran moda. Perfino la Cascina Merlata, che è tra il Gallaratese e Musocco, al confine con Pero, la Cascina Merlata che un tempo era bosco e fontanili, oggi è un quartiere residenziale, con le sue torri e un centro commerciale che è il più grande di Milano.
Milano è bellissima, oggi, mica come quella di una volta.
Della Milano di una volta ho ricordi da bambino, c’era mio nonno che faceva le borse di pelle in via Petrella e in Galleria c’era perfino il negozio della famiglia che l’aveva adottato quand’era rimasto orfano, era una famiglia napoletana che però era diventata milanese perché a Milano anche i meridionali diventavano milanesi. I miei genitori mi portavano in centro ogni tanto ed era sempre un viaggio magico: c’era ancora la nebbia perfino in piazza Duomo, dove vendevano le caldarroste; poi si andava a vedere i negozi di giocattoli: il Paradiso dei bambini in via Dante, Noè in via Manzoni, Quadriga in corso Magenta. Ho ricordi anche davanti alla tv: i funerali delle vittime della strage di piazza Fontana in un pomeriggio in bianco e nero, con la gente composta come si era composti una volta nei giorni di lutto, specie a Milano. Mia mamma mi diceva: guarda quello che celebra, l’arcivescovo, è il cugino della nonna.
Quella Milano lì mi è tornata in mente l’altra sera guardando su Netflix un film, anzi un docufilm come si dice adesso, che si chiama Enzo Jannacci vengo anch’io. La regia è di Giorgio Verdelli e per quel che vale il mio parere è bellissimo. Si vede una città forse meno ricca ma pulsante, poetica, commovente. Si vedono i vecchi filmati e le testimonianze di oggi di quelli che c’erano allora; si vede la Milano del Derby di via Monte Rosa 84, a due passi da piazzale Lotto: Jannacci e Gaber, Cochi e Renato, Milva e Toffolo, Andreasi e Lauzi, Beppe Viola e Dario Fo il quale, d’accordo, non era il massimo della simpatia ma insomma, si potrebbe dire che oggi abbiamo i Ferragnez. Parlano in molti, nel film, di quella Milano: Diego Abatantuono e Massimo Boldi, Paolo Rossi e Paolo Conte, Roberto Vecchioni e Claudio Bisio. Ma verso la fine c’è una battuta veloce, forse troppo veloce tanto che a molti scappa via: esce dalla bocca di Giorgio Vittadini, presidente della Fondazione per la Sussidiarietà e ci fa capire che ci siamo persi, fra i grattacieli, una cosa molto importante. Dice Vittadini che la Milano di Jannacci era la città delle periferie, dove tutti erano qualcuno, anche il barbone che portava le scarpe del tennis e che «el pareva nisun» quando lo trovano morto sotto un mucchio di cartone.
«La Milano di Jannacci era la Milano con il cuore in mano che accoglieva e integrava tutti, e se perdiamo quel cuore lì non è più Milano, è New York», dice Vittadini.
Non c’entra l’immigrazione. Che a Milano non si parli più in milanese, lo cantava già Walter Valdi più di quarant’anni fa: «T’hee sentuu ’se gh’è succèss? Una cosa straordinaria: han trovato un milanese chì a Milan. Lù el cercava de parlà ma nessuno lo capiva. Gh’era tutt pien de baresi, piemontesi e sicilian, e se nò eren genovesi, calabresi o venezian! Gh’era finna uno Zulù e vun de la Polinesia. Dello Zambia eren in duu; gh’era vun de la Rodesia. Gh’era chi parlava il turco, chi el parlava l’australian, ma nessuno che parlasse il dialetto de Milan!».
Era così da sempre, ma Milano non è mai stata una città razzista: se uno lavora, ai milanesi va bene. Milano ha sempre avuto la capacità di far sentire tutti milanesi: Abatantuono che fa il terroncello e poi diventa milanese non è solo comicità, è anche realtà. Lo stesso Jannacci era di origine pugliese.
È che ha ragione Vittadini. Milano, a differenza di Roma, non è nata in centro: è nata in periferia, e in periferia c’è il popolo. Sono le periferie che hanno accolto tutto il meglio del lavoro, è nelle periferie che hanno trovato casa gli immigrati negli anni in cui in altre città si esponevano i cartelli «non si affitta ai meridionali». È in periferia la Milano del lavoro ma anche quella della cultura, della musica, del teatro, del cinema, la Milano di Jannacci, di Gaber, di Testori, di Miracolo a Milano, di Rocco e i suoi fratelli, di Romanzo popolare. A Parigi o a Londra le periferie sono dei ghetti: a Milano sono il cuore.
Le periferie di Milano erano anche le parrocchie, erano un clero che ha sempre saputo stare vicino al popolo. Viene dalle periferie, e non dal palazzo della Curia, un cattolicesimo così milanese da avere un rito tutto suo, il rito ambrosiano. La solidarietà, la sussidiarietà, la capacità di accoglienza, sta anche in quelle radici.
Adesso Milano diventa New York, dice Vittadini, non tanto per quello che è, ma per l’immagine che passa. Una città internazionale, di grandi ristrutturazioni urbanistiche, di finanza di moda di design. Che è bellissimo. Ma se non c’è più il popolo pulsante delle periferie, non c’è più Milano. Se un giovane non può più venirci ad abitare perché le case costano troppo, non c’è più Milano. Se l’Ortica e la Barona, Greco e il Vigentino, Dergano e Baggio e Crescenzago, se insomma tutte quelle periferie che avevano ciascuna una propria anima diventano dei grandi quartieri residenziali, non c’è più il popolo e non c’è più Milano.
Eppure c’è ancora, il grande cuore. Ci sono ancora i corpi intermedi, la sussidiarietà e la solidarietà, ci sono ancora i preti che non si arrendono a ridurre le parrocchie in messifici: c’è don Gino Rigoldi e c’è don Claudio Burgio con la sua comunità Kairos, c’è don Paolo Steffano che sa inventare la bellezza perfino al Gratosoglio. Milano è ancora la città dell’Arca, delle Acli e del Banco Alimentare. Milano è ancora la città del Terzo settore e di tante piccole imprese che nascono.
Ma tutto questo non è più al centro dell’interesse culturale, o meglio dell’immagine che la stessa Milano vuol dare di sé. Non è più sottolineato. Milano preferisce presentarsi come una New York, di cui rischia di diventare solo una brutta copia.