Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2024  gennaio 31 Mercoledì calendario

La Gomorra delle spiagge

Occhiali scuri, giubbotto di pelle nera, sigaro acceso. Alessandro Zof, quarant’anni, così si presenta sui social, tra immagini da duro, party e gli immancabili tatuaggi. È il figlio di Maurizio, conosciuto a Latina, fin dagli Anni 70, come Topo, nomignolo che si era guadagnato quando era un volto conosciuto dell’estrema destra locale. Padre e figlio, con gli anni, hanno fatto strada, passando dalla strada alla movida della città pontina. Partendo dal quel soprannome, trasformandolo nel marchio dei loro locali. Il «Topo Street food» di fianco lo stadio, ma soprattutto «Topo Beach», il chiosco numero uno, il più pregiato della spiaggia di Latina, sulla strada che costeggia le dune e il parco del Circeo, verso il Rio Martino. Dietro il locale aperto di fronte al mare si nascondeva una macchina da soldi: DJ set la sera, vini pregiati e cucina a base di pesce a pranzo, aperitivi, balli, abbronzature e cocktail tutta l’estate. Licenze, concessioni o aste zero. Bastava il nome, Zof.
Per padre e figlio due giorni fa sono scattati gli arresti, chiesti dalla Direzione distrettuale antimafia di Roma, dopo due anni di indagini condotte dalla Squadra mobile di Latina. L’accusa è di turbativa d’asta, aggravata dal metodo mafioso. Una vera e propria «Gomorra on the beach», a cinquanta chilometri da Roma. E una storia che racconta quali interessi spesso si nascondano dietro la resistenza alle normative europee per gli affidamenti con gara pubblica delle nostre spiagge.
Il 2016 per Latina fu un anno rivoluzionario. Prima l’inchiesta «Don’t touch» che scardinò il potere decennale dei clan Sinti, i Di Silvio e i Travali, famiglie imparentate direttamente con i Casamonica. Poi l’arrivo di un sindaco eletto per la prima volta da una lista civica, «Latina bene comune», nata proprio da un movimento cittadino intenzionato ad allontanare il sottobosco criminale dai palazzi istituzionali. Uno dei primi dossier che l’allora sindaco appena eletto Damiano Coletta si trovò sul tavolo era l’avvio della gara per l’affidamento di sei chioschi, con annesse spiagge, sul lungomare. Una pratica avviata dal commissario prefettizio, nominato dopo un’inchiesta che travolse la precedente giunta di destra.
Il primo locale, il più pregiato, era da anni gestito dalla famiglia Zof. Nel marzo 2017 il Comune aggiudica la gestione dei chioschi sul litorale. Un mese dopo, gli uffici pubblicano la graduatoria. C’è però una anomalia, le società aggiudicatarie progressivamente rinunciano all’assegnazione, nonostante il giro d’affari niente male. Prima una srl locale dà forfait, poi la seconda in graduatoria, una cooperativa di Roma, non presenta gli atti richiesti per la sottoscrizione del contratto. A quel punto, il sindaco prende tutte le carte e si presenta davanti al questore Giuseppe De Matteis, che due anni prima aveva guidato la prima indagine sui clan locali.
Quello che stava avvenendo era in realtà già chiaro da almeno un anno. Il 28 aprile del 2016, poco dopo l’avvio della gara, Alessandro Zof sul suo profilo Facebook aveva spiegato come stavano le cose: «Il Topo Beach non si tocca… Era di mio nonno, è di mio padre e sarà mio e di mio fratello... Il mio futuro, la mia tranquillità è data da tutto questo… scombinate questa catena e vi creerò l’inferno». Non parole di rabbia di un imprenditore che stava perdendo un affare garantito, ma la minaccia diretta di un esponente di spicco delle mafie locali. A chiarire, negli anni successivi, il senso di quelle parole è stato Agostino Riccardo, uno dei collaboratori di giustizia più preziosi per capire il funzionamento delle mafie nella zona di Latina: «lo parlavo con Alessandro (Zof, ndr) che faceva parte del clan Travali e lui mi diceva che al padre non avrebbero mai tolto la gestione del chiosco, almeno fino a quando durava la vecchia gestione comunale». Il collaboratore nel corso degli interrogatori davanti ai magistrati romani ha anche spiegato l’importanza non solo imprenditoriale di quel locale per la famiglia Zof: «Non so quanto potesse rendere la gestione del chiosco, credo 25.000 o 30.000 curo, di certo era frequentato da tutti i pregiudicati di Latina». A pesare non era solo il fatturato. Topo Beach, secondo le indagini della Squadra mobile di Latina, era diventato il punto di rendez-vous della criminalità del posto, come aveva raccontato Riccardo in diverse deposizioni: «La gestione del chiosco era molto importante per Alessandro Zof, perché da sempre lo avevano gestito il padre e la sua famiglia, e comunque era una questione di prestigio del suo nome e punto di riferimento dei criminali di Latina anche per la gestione dello spaccio di droga. Nessuno a Latina poteva gestire il chiosco n. 1, da sempre gestito dalla famiglia Zof». Un prestigio criminale, come il collaboratore di giustizia ha confermato in aula durante uno dei processi per le mafie di Latina: «Alessandro Zoff è un ex affiliato al Clan Travali, commetteva estorsioni, vendeva droga, ma più di tutto era una persona che sparava, non aveva scrupoli. Non è l’ultimo arrivato». —