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 2024  gennaio 31 Mercoledì calendario

Biografia di Amerigo Dumini, il killer del Fascio

Il racconto dell’intera vicenda dell’assassinio di Giacomo Matteotti – così come negli anni è stata minuziosamente studiata, attraverso indagini, accertamenti di polizia, prove materiali inconfutabili, testimonianze, confessioni e infine un legale e documentato processo giudiziario nel dopoguerra (su cui abbiamo basato la nostra ricostruzione) – richiede a questo punto l’indicazione del ruolo svolto da un decisivo protagonista: il capo degli assassini fascisti incaricati e autori del misfatto sanguinoso che nel secolo Ventesimo ha segnato la storia d’Italia. Il nome di costui è Amerigo Dumini.
Alto, robusto, 30 anni appena compiuti, elegante e cordiale con tutti, amici e nemici politici, Dumini lavorava formalmente come giornalista per il Corriere Italiano di ispirazione fascista. Nato a St. Louis, fondatore del fascio di Firenze, era stato chiamato a Roma direttamente da Mussolini, che l’aveva collocato a Palazzo Chigi al fianco del suo diretto e potente collaboratore, o braccio destro, il brillante Cesarino Rossi. Assiduo frequentatore di Montecitorio, vicinissimo a Benito Mussolini già a Milano quando il capo dirigeva il Popolo d’Italia, Dumini appariva cordiale, informatissimo, onnipresente. Secondo un autorevole ritratto (vedi i Documenti inediti sul caso Matteotti a cura del brillante studioso M. Canali), egli “con uguale intensità frequentava la sede della Direzione del Partito, il Palazzo del Parlamento e Palazzo Chigi. In quest’ultimo ambiente Dumini aveva libero accesso, accolto con grande deferenza: funzionari e uscieri erano abituati a vedere il Presidente soffermarsi con lui con una cordialità spinta fino alle forme più confidenziali”. Nella vita privata la sua principale attività non era però la propaganda fascista: il fulcro dei suoi interessi erano i residuati di guerra, al centro di un vorticoso giro di affari; maneggiava il mercato procurandosi armi a poco prezzo e rivendendole a costi correnti. Si trattava di un business enorme: il democratico Francesco Nitti, inascoltato, aveva denunciato “quei nobili uomini che il popolo chiama con benevolenza pescecani mancando di rispetto agli squali”. Nel 1923 l’ex squadrista toscano aveva realizzato il più cospicuo dei suoi affari quando – grazie alle protezioni mussoliniane – aveva messo le mani su una enorme partita di armi leggere provenienti dal ministero della Guerra e girate a prezzi correnti al governo jugoslavo. Il colossale business era stato però bloccato da un’altra cordata fascista e Dumini fu addirittura minacciato di arresto. La sua reazione, attraverso una lettera a Benito Mussolini, era stata furibonda, al punto che il Popolo d’Italia, il giornale personale del duce, aveva pubblicato un umile articolo di scuse dall’eloquente titolo Le accuse a Dumini erano infondate. Quelle scellerate calunnie – si assicurava – esigevano un’immediata ritrattazione, con un omaggio dovuto a “un prode combattente, un valoroso mutilato, un vecchio e provato milite dell’idea fascista”.
Dumini era stato a questo punto definitivamente e saldamente arruolato all’interno della corte degli uomini di Mussolini. Sembrò abbandonare la sua carriera di uomo d’affari, per essere inserito nella ristretta cerchia dei cosiddetti giornalisti dipendenti dal Corriere italiano. Dumini aveva naturalmente a disposizione il documento di giornalista parlamentare, la molto ambita tessera gratuita delle ferrovie e uno stipendio (così registrato, ma in realtà molto superiore) di 2.500 lire al mese. In quegli anni la paga media operaia era di 3,15 lire l’ora, un caffè costava 70 centesimi, un quotidiano 20. Il salto di qualità del Dumini nella gerarchia mussoliniana fu sanzionato infine dalla sua sistemazione a libro paga direttamente della Presidenza del Consiglio.
Al Viminale, abituale sede del governo e del suo capo, Dumini era un’autorità. Spesso si chiudeva nella stanza dell’onnipotente Cesare Rossi, numero due fascista. Secondo un subordinato, “spadroneggiava all’ufficio stampa e vi comandava con aria di imponenza e di autorità”. In realtà, il compito politico dell’intraprendente fiorentino era diverso da quello, pur prestigioso, di fedelissimo protetto di Mussolini: era stato proprio un uomo dell’entourage del presidente del Consiglio a definire con precisione la funzione che Dumini era in grado di svolgere in quei giorni cruciali con impegno e intelligenza: si trattava infatti – spiegò con una qualche ammirazione – di “un assassino professionale”.
Quello che accadde in Italia con il rapimento e l’uccisione di Matteotti era qualcosa di diverso da un semplice colpo di Stato, o di una crudele vendetta personale da fare pagare agli sconfitti. Ciò che stava nascendo era un nuovo tipo di governo autoritario, nobilitato come “ideologia”, che l’autoproclamato duce – innamorato della retorica – così ebbe poi a definire con enfasi: “Una monade inscindibile, una cittadella nella quale non vi possono essere antitesi né d’individui né di gruppi. Lo Stato controlla tutte le organizzazioni al di fuori ma non può essere controllato dal di dentro… se no andremmo incontro alla decadenza nazionale” (Discorso alla Camera dell’11 dicembre 1925).
Le elezioni del 6 aprile 1924 avevano creato in Parlamento, anche grazie ai truffaldini meccanismi elettorali, una solida maggioranza di omaggianti alleati attorno ai fascisti. Mussolini aveva celebrato la vittoria dal balcone di Palazzo Chigi e in un primo tempo aveva giocato la carta del capo generoso, diventato ormai benevolo padrone di tutto. Davanti a una piccola folla raccoltasi tra corso Umberto e via del Tritone a Roma, il duce in pectore aveva pronunciato parole di apparente conciliazione: “Periscano tutte le fazioni, anche la nostra, ma sia grande, sia rispettata la Patria italiana!”. Tuttavia Mussolini non aveva gradito la convinzione, diffusa tra gli oppositori, secondo cui “la partita era ancora aperta”. Alcuni funzionari del ministero dell’Interno raccontarono di aver ascoltato molte lamentele, prima mormorate poi urlate con rabbia da Mussolini, che aveva percepito leggendo i giornali un’atmosfera di incertezza nell’elettorato (all’assenza delle donne, cui non era consentito votare, si erano aggiunti nelle urne non pochi astenuti): “Ma come? – aveva gridato a chi, tra cui il fedele Cesare Rossi, gli stava intorno al ministero –, ancora non sono persuasi? Insomma, cosa vogliono? Vogliono che si sbuzzi il rospo?”.
Sul suo storico e temuto giornale quotidiano, Il Popolo d’Italia diretto dal fratello Arnaldo, il capo del governo aveva fatto pubblicare una ottimistica ma insieme rabbiosa valutazione del clima post-elettorale: “All’infuori di Mussolini, tutti gli altri non contano, e sono soltanto, o strumenti della sua azione, o inutili espressioni di ideologie e di clientele dalla premente realtà travolte e sorpassate”. Per chi voleva capire, l’uomo di Predappio considerava la situazione certo favorevole ma purtroppo ancora lontana dalla soluzione. C’era bisogno di un nuovo ed esplicito sviluppo, stavolta definitivo. Gente come Matteotti non poteva restare viva e operante, nel futuro dell’Italia di Mussolini. Per il regime destinato a sopravvivere vent’anni era dunque necessaria, in Italia, una svolta a tutti visibile. Bisognava per questo rivolgersi all’uomo adatto. Si chiamava Amerigo Dumini, e sapeva il fatto suo.
(4 – continua)