il Giornale, 31 gennaio 2024
Il duce d’Oriente
Il 21 dicembre 1933 in Campidoglio Giovanni Gentile annunciò la nascita dell’Istituto Italiano per il Medio ed Estremo Oriente (Ismeo) che avrebbe dovuto promuovere e sviluppare le relazioni culturali ed economiche fra l’Italia e il mondo asiatico. La creazione dell’Ismeo era stata proposta al Duce dal filosofo e da un gruppo di suoi amici esperti in cose orientali, fra i quali Giuseppe Tucci: questi, ricordò il filosofo, era «un già mio scolaro che col suo ingegno, con la sua dottrina, con la sua perseverante geniale attività di pioniere nella scoperta e nello studio delle plaghe più misteriose delle terre e delle anime, onora non soltanto la scuola di Roma ma l’Italia».
Il quarantenne Tucci era già un personaggio noto a livello internazionale. La sua carriera come orientalista era cominciata quando, nel 1925, lui, che lavorava presso la biblioteca della Camera, era stato inviato in India a insegnare lingua e letteratura italiana. La decisione era venuta da Mussolini che aveva accolto la richiesta di Tagore, il grande poeta premio Nobel per la letteratura, il quale aveva già invitato, come visiting professor, nella università da lui fondata in Bengala, l’indologo Carlo Fomichi, maestro dello stesso Tucci. L’interesse di Mussolini per l’India era antico, forse originato dalla lettura di alcuni lavori di Gustave Le Bon sull’India in rapporto alla colonizzazione inglese e alle differenze con quella francese. Tuttavia questo interesse all’inizio era circoscritto a Tagore e a Gandhi, figure ben conosciute in Italia. Di Tagore erano state tradotte molte opere, mentre Gandhi aveva affascinato D’Annunzio, per il quale egli era «il costante e paziente messia delle Indie», e Arnaldo Mussolini, che aveva per lui un vero culto e ne leggeva la sua «resistenza passiva» in chiave anti-inglese. Le visite in Italia di Tagore, nel 1925 e nel 1926, e di Gandhi, nel 1931, rientrano indubbiamente in questo interesse.
L’attenzione mussoliniana per l’India, peraltro, si inseriva in un quadro più generale. La politica estera del fascismo fu, infatti, più complessa di quanto si è detto. Non fu solo nazionalistica o imperialistica, volta alla ricerca di una egemonia europea o a conquiste africane, ma postulò anche una proiezione balcanica e centro-danubiana e manifestò attenzione per il medio ed estremo Oriente. Su quest’ultimo punto, in particolare, è uscito un importante volume di Enrica Garzilli, Mussolini e Oriente (Utet, pagg. 1200, euro 45) che ricostruisce legami culturali e rapporti politici dell’Italia fascista con i paesi dell’Oriente, dall’India, appunto, al Giappone.
Dal momento in cui era giunto al potere, il fascismo non aveva portato avanti una propria politica estera: questa, per qualche tempo continuò a essere dettata dal ministero degli Esteri. E si trattò di una politica attenta a mantenere buone relazioni con Francia e Gran Bretagna: essendo infatti uno dei Paesi vincitori della Grande Guerra, l’Italia si muoveva in consonanza con gli alleati e, in questo quadro, non poteva avere, secondo i diplomatici e i funzionari ministeriali appartenenti alla vecchia scuola e alla tradizione risorgimentale, una «politica indiana» o attenta all’Oriente dovendo stare attenta a evitare passi falsi che potessero urtare Londra e pregiudicare i buoni rapporti con gli inglesi. Il che spiega, per esempio, i motivi per i quali Gandhi, quando venne in Italia, non riuscì neppure a incontrare Dino Grandi.
Questi, tanto da sottosegretario quanto da ministro, fu sempre prudente e sospettoso nei confronti di qualsiasi approccio con l’Oriente e in particolare con l’India. Egli aveva della politica estera una concezione precisa di tipo – oggi diremmo – «multilaterale», dominata dalla preoccupazione di ottenere il meglio per l’Italia secondo la formula del «peso determinante»
in un quadro che preservasse la pace internazionale garantita dal pool dei vincitori della Grande Guerra. Quella di Mussolini, per quanto più rozza e pragmatica, era invece una concezione che privilegiava rapporti – oggi diremmo – di tipo «bilaterale» e alleanze variabili.
Fu forse questa diversità di concezione della politica estera il motivo per il quale l’attenzione di Mussolini per l’Oriente, almeno all’inizio, come ben dimostra il volume della Garzilli, si manifestò soprattutto sul terreno culturale. La figura di Tucci, in tale quadro, si rivelò fondamentale. Tucci fu un «rappresentante» del governo in Asia e al tempo stesso un «propagandista» delle culture asiatiche in Italia. Il suo rapporto col regime divenne sempre più stretto e organico. Il regime aveva bisogno di quest’uomo energico, intelligente, organizzatore, affascinante in grado di esportare l’immagine del fascismo. Tucci, dal canto suo, aveva bisogno dell’appoggio di Mussolini e del regime per finanziare le sue spedizioni. I suoi libri e articoli – e quelli sulle sue spedizioni – avevano un successo straordinario. All’epoca i giornali parlavano poco dell’Oriente, anche perché quasi solo gli inglesi avevano corrispondenti accreditati lì, e i lettori comuni rimanevano colpiti dai resoconti di Tucci su mondi e realtà sconosciute. La sua figura divenne sempre più quella del romantico e coraggioso scienziato-eroe, quasi un’Indiana Jones ante litteram, al servizio del regime e dell’Italia.
Direttore dell’Ismeo fin dalla fondazione, Tucci finì per identificarsi con esso. E nella storia dei rapporti fra Mussolini, il regime e l’Oriente l’istituto culturale ebbe un ruolo che toccò anche la politica estera, perché esso, di fatto, per un verso divenne il tramite con i movimenti di liberazione asiatici e, per altro verso, contribuì alla creazione di una «ideologia di appoggio» a essi. In altre parole, svolse – accanto alle istituzionali attività culturali di ricerca scientifica e di scavi archeologici – anche i compiti propri di una «diplomazia parallela». E non a caso – val la pena di rilevarlo, sia pure per inciso – i rapporti dell’Ismeo con il ministero degli Esteri non furono sempre idillici, soprattutto durante il periodo in cui fu ministro Galeazzo Ciano.
Le manifestazioni di appoggio di Mussolini alla causa indiana crebbero dopo la firma del Tripartito (Roma-Berlino-Tokyo) e, soprattutto, dopo l’ingresso in guerra del Giappone nel dicembre 1941. Prescindendo dall’interesse del Duce per l’India, avevano due motivi. Il primo era anti-inglese, nel senso che l’appoggio ai movimenti indipendentisti si presentava come atto ostile nei confronti dell’Inghilterra. Il secondo riguardava gli equilibri all’interno del Tripartito ed era sottilmente anti-tedesco nel senso che per Mussolini, da sempre diffidente di Hitler, assumere una posizione filo-indiana e filo-nipponica, anche in contrasto con esponenti importanti dei ministeri degli Esteri, era un modo per sbilanciare l’alleanza a favore dell’Italia.
Il volume di Enrica Garzilli, rigoroso e avvincente, fondato su una ricca documentazione archivistica, è lo studio più completo oggi disponibile sul tema della «politica orientale» dell’Italia fascista. Esso tratta non soltanto dei casi più noti di «politica orientale» dell’Italia – Giappone e India, per esempio – ma anche quelli meno conosciuti, come l’Afghanistan, del quale l’Italia fu il primo Paese al mondo a riconoscere l’indipendenza e che diventò ben presto lo scacchiere sul quale si scontrarono nel «Grande Gioco» le maggiori potenze del tempo, Gran Bretagna e Russia.