il Giornale, 31 gennaio 2024
Con il debito gli Usa hanno fatto fortuna
«In debt we trust». Il motto nazionale degli Stati Uniti dovrebbe essere questo, sintesi perfetta di un Paese che attorno al dio del debito ha eretto, pietra su pietra, un altare da 34mila miliardi di dollari. Equivalente alla somma complessiva dei Pil di Cina, Germania, Gran Bretagna, India e Giappone, la cifra monstre dà l’esatta misura di come l’American style of life sia agli antipodi rispetto alla Weltanschauung finanziaria (...)
(...) tedesca, calvinista e rigorosa al punto da trovare un compendio in quella parola – schuld – che assimila il debito alla colpa.
Sensi di colpa che, all’atto di indebitarsi, gli americani non hanno mai avuto. Fin dall’alba della nazione. «Il debito Usa, estero e interno, è il prezzo della libertà», scrive nel primo rapporto sul credito pubblico il segretario al Tesoro, Alexander Hamilton. Era il 1790: spalmate su oltre due secoli, le successive generazioni di governanti, amministratori ed economisti hanno raccolto il retaggio di uno dei padri della Patria, senza (quasi) mai discostarsi da quel precetto. Anzi: semmai lo hanno dilatato come un elastico tenuto sempre in tensione. Tanto dai democratici, quanto dai repubblicani. I pochi presidenti Usa con velleità di cambiamento, inteso come propensione a riportare la spesa pubblica sotto controllo, una volta varcata la soglia della Casa Bianca hanno poi compiuto un’inversione a U. Il caso più emblematico resta quello di Ronald Reagan. Entrato al 1600 di Pennsylvania Avenue con piglio liberista ispirato dal Nobel Milton Friedman («Per decenni, abbiamo accumulato deficit su deficit, ipotecando il nostro futuro e quello dei nostri figli»), qualche anno più tardi l’ex attore cala la pietra tombale sulla spending review: «Il debito americano è così grande da poter badare a se stesso». Dunque, non c’è di che preoccuparsi. Anche perché, come insegna Keynes, «se devi alla tua banca cento sterline, tu hai un problema. Ma se ne devi un milione, il problema è della banca».
Un comandamento messo a frutto. Solo così si spiega la parabola perennemente in ascesa del «rosso» a stelle e strisce, sparito dai libri contabili una sola volta, nel giurassico 1835. Per il resto, gli ultimi 100 anni sono stati un crescendo rossiniano che ha fatto esplodere il debito dai poco più 400 miliardi di dollari del 1923 al picco attuale. Raggiunto dopo che l’America ha iscritto a bilancio lo scorso anno altri 2.581 trilioni di dollari, di cui 834 solo nell’ultimo trimestre. Con una differenza rispetto al passato ancor recente: ora c’è un pedaggio salato da pagare a causa delle ripetute strette monetarie decise dalla Federal Reserve, a partire dal marzo ’22, per contrastare l’inflazione.
La Fed di St. Louis ha infatti calcolato che, per la prima volta nella storia americana, nel 2023 l’ammontare degli interessi pagati è stato superiore ai 1.000 miliardi. È un po’ come partire, all’inizio dell’anno, con piombi ai piedi che vanno a erodere la crescita economica e peggiorano il rapporto fra debito e Pil (ora al 122,5%), cioè il parametro-chiave per valutare quanto sia sostenibile il debito.
Di fatto, con l’eccezione dell’ultimo periodo, gli ultimi quarant’anni di politica monetaria lasca, un arco temporale in cui il costo del denaro è sceso dal 9% dei primi anni ’90 fino allo zero della seconda decade del terzo millennio, sono stati gli anni delle occasioni perdute: invece di mettere in ordine i libri contabili, l’America ha preferito sfruttare i collocamenti dei T-Bond con rendimenti bassi per accentuare la storica coazione a indebitarsi. Non senza ragioni, talvolta. Già fra il 1933 e il 1945, il New Deal di Franklin D. Roosevelt risolleva il Paese dalla Grande depressione e lo prepara all’ingresso nella Seconda
Guerra Mondiale, ma lascia un segno indelebile sul debito, facendolo esplodere del 1.000 per cento. Senza contare gli aiuti all’Ucraina, la partecipazione ai principali conflitti post-11 settembre è costata, in base ai calcoli del Watson Institute for International and Public Affairs della Brown University, ottomila miliardi, compresi i 2,2 trilioni che andranno sborsati per i veterani nei prossimi 30 anni. Costi a cui vanno sommati quelli sostenuti per rimuovere dai gangli vitali dell’America le scorie tossiche del virus dei mutui subprime nel 2008 (duemila miliardi, di cui 500 solo per i salvataggi finanziari, secondo il Mit) e quelli (altri duemila miliardi) per far fronte ai disastri provocati dal Covid.
Questa tendenza a lasciar galoppare i debiti come un pallottoliere impazzito trova la sua massima espressione nella pantomima che va in scena ogni anno al Congresso sul rinnovo del debt ceiling, un tetto reso necessario dalla crescente mole di collocamenti da parte del Tesoro (oltre 267 aste annuali per finanziare quasi ottomila miliardi). Un limite che, almeno negli ultimi anni, è sempre stato superato costringendo il Parlamento a trovare un accordo sul nuovo plafond. Gli estenuanti tira e molla per trovare un’intesa sono costati all’America due volte la perdita della tripla A, simbolo della massima affidabilità creditizia: nel 2011 per mano di Standard& Poor’s e nell’agosto scorso per decisione di Fitch. Un atto di lesa maestà, per Barack Obama e Joe Biden, poiché il downgrade è una picconata alla completa, e indiscussa, solvibilità dell’America.
E in un mondo in rapido mutamento, dove l’impatto dell’allargamento dei Brics sotto il profilo valutario è ancora tutto da stimare, gli Usa non possono veder messo in discussione il ruolo di valuta di riserva del dollaro, cioè lo scudo a protezione del debito. Soprattutto ora che qualche scricchiolio su questo versante comincia ad avvertirsi. Un’analisi della Fondazione Peterson afferma che, dopo il picco del 49% nel 2011, il peso degli investitori internazionali sul debito statunitense è sceso al 30% a fine 2022.
Un fenomeno di cui non si vedono i titoli di coda e che costituisce un altro problema per un Paese dove il 17% degli americani ha più di 65 anni. A patto di non fare come nel libro I viaggiatori della sera di Umberto Simonetta, dove i 50enni vengono deportati in un villaggio vacanze per poi essere mandati a morire su una nave da crociera, la crescente presenza di vecchi richiederà maggiori risorse federali destinate al sostegno al reddito e all’assistenza sanitaria. Il Congressional Budget Office (CBO) prevede che, entro il 2053, le spese per la previdenza sociale aumenteranno di quasi l’1% del Pil e quelle per l’assistenza sanitaria del 3 per cento. Insomma, altri debiti. Il modello di Wharton lascia a Washington due opzioni: tagliare la spesa del 30%, usando l’accetta sulla previdenza sociale, sul Medicare e sul Medicaid; oppure, aumentare le entrate – tasse in primis – di circa il 40 per cento. Scelte dolorose per un Paese che ha quasi esaurito la sabbia nella clessidra: prima di raggiungere il punto di non ritorno, l’America avrebbe a disposizione appena venti anni per un’azione correttiva.
Al presidente che uscirà dalle urne quest’anno, il compito di imitare Robert Frost: scegliere, fra le due strade nel bosco, quella finora meno battuta.