La Stampa, 31 gennaio 2024
La Russia si è rotta
Una fontana di acqua bollente è esplosa a Nizhny Novgorod, in pieno giorno: 12 passanti, tra cui due bambini, sono rimasti gravemente ustionati nella rottura di una tubatura del riscaldamento. Il giorno dopo è stato il turno di Volgograd, con un altro geyser che ha raggiunto l’altezza del sesto piano: cinque ustionati e centinaia di stabili rimasti senza riscaldamento. Il giorno prima, in un altro quartiere della stessa città, altre 223 case sono rimaste senza calore nel pieno del gelo di gennaio.
Mentre Vladimir Putin sta cercando di ridurre in macerie le città ucraine, alle sue spalle si è aperta un’altra linea del fronte, che passa per le città russe. Secondo il ministero della Protezione civile di Mosca, ogni 7 minuti viene registrata un’emergenza: un incendio, un blackout, una fuga di gas o di acqua. La Russia sta andando a pezzi, e gli incidenti con le caldaie, che hanno lasciato al gelo migliaia di abitanti dell’hinterland moscovita, attirando l’attenzione di Putin e dei media internazionali, sono soltanto la punta di un iceberg. I primi allarmi sullo sgretolamento delle infrastrutture ereditate dall’Unione Sovietica sono stati lanciati dai tecnici all’inizio degli anni Duemila, ma all’epoca il regime e l’economia putiniani erano in ascesa, e sembrava un problema transitorio. Trent’anni dopo, «la quantità si sta trasformando in qualità», avverte l’economista Igor Lipsitz, che nell’intervista alla rivista Spektr emette la diagnosi: «La Russia è attrezzata con impianti follemente obsoleti, usurati e assolutamente inaffidabili».
La media dell’usura dell’impiantistica – tubi, cavi, pompe, turbine, caldaie, motori – si aggira intorno al 65-70%. A Nizhny Novgorod, grande e ricca, dopo l’incidente del geyser le autorità si sono vantate di aver ridotto il tasso di obsolescenza dal 77% al 50%, in alcuni agglomerati si aggira sul 100%, nella ricca Mosca tende allo zero. L’Associazione ascensoristica russa ha appena fatto sapere che su 81,5 mila ascensori da sostituire, manca il finanziamento per 45 mila, quasi il 10% del parco totale. La Russia, contrariamente all’immaginario europeo, non abita in casette rustiche, ma in casermoni di cemento, e la prospettiva di vecchi o bambini imprigionati al 22esimo piano senza ascensore, e con i caloriferi rotti, appare apocalittica.
La causa è scontata, quanto la soluzione. L’impiantistica sovietica, centralizzata, elefantiaca e inefficiente, ha dei costi di gestione mostruosi. Per gli enti locali erano eccessivi: fino al 60% delle spese del ricco comune di Mosca veniva divorato da riscaldamento, acqua calda e altre funzioni vitali. La ricchezza apparente e appariscente della Russia del boom petrolifero è stata spesa altrove: i privati in auto e vestiti, gli oligarchi in yacht e squadre di calcio, i sindaci in progetti immobiliari scintillanti e ricchi di appalti ambigui, il Cremlino in Olimpiadi e guerre. Ora, per tamponare l’emergenza infrastrutturale ci vorrebbero, secondo l’economista ed ex deputato della Duma Ivan Grachov, 10-20 trilioni di rubli ogni anno, per 3-5 anni (un euro equivale a 100 rubli).
La finanziaria del 2024 è di 35 trilioni, di cui un terzo speso per la guerra. Ogni raid aereo sulle città ucraine polverizza chilometri di tubature e centinaia di caldaie: la spesa per le infrastrutture comunali è stata ridotta a 818 miliardi nel 2024 e si dimezzerà a 455 nel 2025, per scendere a 360 nel 2026. «Le condizioni di vita della popolazione non hanno più nessuna rilevanza per il potere», commenta Lipsitz: «Tanto può sempre giustificare povertà e disagi con la guerra».
La modernizzazione delle infrastrutture potrebbe essere un motore di rilancio, ma il Cremlino preferisce le bombe, e la popolazione non ha i mezzi. Il presidente dell’Associazione ascensoristica Pyotr Kharlamov dice che la sostituzione degli ascensori dovrebbe venire finanziata dai condomini, ma gli inquilini russi non hanno messo da parte i soldi necessari nemmeno per un impianto. Il fatto che gli ascensori siano prevalentemente occidentali, di marchi che boicottano il mercato russo, e che i prezzi siano aumentati del 50%, è quasi irrilevante di fronte a una constatazione amara: la Russia è un Paese povero, come dimostra il fiume di volontari disposti a morire nelle trincee ucraine per qualche migliaio di euro.
È stato Putin in persona a nazionalizzare la caldaia rotta di Klimovsk, il paese nei pressi di Mosca, mostrando la via. Il capo della Duma Vyacheslav Volodin chiede la rinazionalizzazione della rete elettrica, nonostante dovrebbe a quel punto venire sovvenzionata dal governo. E il presidente della Camera di industria e commercio Andrey Shirokov ha rotto un tabù sostenendo che la privatizzazione degli alloggi dei russi negli anni Novanta «è stata un errore che ha generato una classe di proprietari miserabili». Secondo lui, fino al 60% degli inquilini non sono in grado di permettersi le spese comunali e condominiali, e dovrebbero rinunciare agli appartamenti di proprietà.
Un’ammissione del fallimento dell’utopia postcomunista, che regalava case a chi le abitava nella speranza thatcheriana di creare una classe di piccoli proprietari, che avrebbero avuto qualcosa da perdere oltre alle loro catene. Quarant’anni dopo, si sta pensando a una nuova Urss, che abita in una gigantesca banlieue di case popolari (comunque fatiscenti). Una riscrittura definitiva del patto sociale: invece di cittadini che scelgono dove e come vivere, e da chi farsi governare, dei sudditi totalmente dipendenti dallo Stato, e pronti a farsi mandare in guerra, stavolta senza nemmeno i soldi per accendersi un mutuo. —