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 2024  gennaio 31 Mercoledì calendario

Intertvista a Nino La Rocca

«Ai tavolini di un caffè di Marrakech vicino a casa dei nonni sedeva sempre un signore scuro di pelle che ad occhio poteva avere l’età di mio padre. Quando il preside mi obbligava a tornare con i genitori, pagavo il tipo perché mi trascinasse a scuola per un orecchio. Il preside si spaventava: “Lo perdoni signor Sidibé, il bimbo non è cattivo: tutto si risolve, vedrà”. All’uscita gli regalavo qualche dirham: lui tornava al bar, io in strada a far casino». Nell’estate del 1966 Cheick Tidjani Sidibé ha sette anni, una mamma adolescente, un papà fantasma. Oggi Cheick, alias Nino La Rocca, mito della boxe azzurra (64 anni, 80 incontri, 74 vittorie), vive alla periferia della periferia sud di Roma tra riflessi di gloria e rimpianti con pensione riservata ad artisti e atleti.
Wikipedia scrive che lei nasce in Mauritania da cittadino del Mali. E il Marocco?
«Sono nato in Mauritania, a Port-Étienne dove mio padre, maliano e soldato dell’esercito coloniale francese, trascinò mia madre incinta a 17 anni. In Marocco mi sono trasferito subito dopo».
Chi era sua madre?
«Nunzia La Rocca, donna bellissima, figlia di siciliani di Resuttana emigrati in Africa per aprire un panificio. Papà sparì subito, mamma restò con me e due fratelli, Ibrahim e Hussein. Vivevamo con i nonni, a casa si parlavano francese e siciliano, fuori l’arabo».
Infanzia?
«Selvaggia. Mamma non si riprese mai dalla fuga di papà che nel frattempo faceva figli in giro per il mondo: siamo 32 o 33. Io vivevo alla giornata, pupazzo nelle mani di zio Mariano, un pugile dilettante che mi usava come sacco da boxe per intrattenere gli amici. A 16 anni mi spedirono in piroscafo a Marsiglia e poi a Parigi da un altro zio materno».
E lui?
«E lui mi affidò a un impresario francese mezzo delinquente che mi faceva combattere contro enormi pugili in disarmo tenendo gli ingaggi per sé. L’unico mio scopo era rimanere in piedi e vivo».
Dove boxava?
«Ovunque. A 21 anni mi spedirono proprio in Mali. Zio avvertì mio padre, che non avevo mai conosciuto. Prima del match chiamai casa, avevo un presentimento: mamma era appena morta di crepacuore, a 37 anni. Io non riuscivo a smettere di piangere, papà si presentò a bordo ring sereno come uno che non ti vede da poche ore. Ho cancellato la sua faccia».
Poi il trasferimento in Italia.
«A Genova perché zio conosceva Rocco Agostino, il famoso manager. Ero già fortissimo, avrei potuto combattere per il titolo ma non avevo la cittadinanza anche se mamma era italiana. Però vinsi 50 match di fila e diventai l’idolo del Paese».
Nel 1984 la prima sconfitta contro il francese Elbilia per un taglio alla testa causato da una caduta.
«Invece di assegnare un no contest e rimandare l’incontro, l’arbitro mi diede un Ko tecnico. Mi ripresi subito contro Bobby Joe Young: lo misi al tappeto e guadagnai la finale mondiale dei welter contro Don Curry».
Non andò bene.
«Mi stese dopo sei riprese. Poi vinsi il titolo europeo ma quel match mi segnò per sempre».
Nel frattempo arrivò la nazionalità italiana.
«Venne annunciata in tv da Gianni Minà. Durante la diretta Sandro Pertini, il Presidente della Repubblica, mi invitò al Quirinale».
Se l’è goduta poco.
«Il tempo di ricevere i documenti e mi chiamarono militare a Bologna: un anno perso nella compagnia atleti senza mai combattere. In caserma a intervistarmi per capire che fine avevo fatto venne Enzo Biagi».
Poi la sua carriera oscillò tra alti e bassi.
«Vincevo tanto, guadagnavo tantissimo. La mia boxe aggressiva faceva impazzire e riempiva i palazzetti, da Roma al Madison Square Garden di New York. Credo di aver accumulato oltre due miliardi. Ma ero un bischero ingenuo».
Spieghi.
«Ricordo una lunga intervista di un quotidiano sportivo: il cronista, dopo avermi definito il Muhammad Ali italiano, mi tese un’imboscata. Ci cascai, sparai a zero contro tutto e tutti, la politica che mi aveva illuso con una candidatura alle elezioni poi ritirata, la Federazione che non mi dava la licenza di maestro di boxe e mi impedì di combattere ad alti livelli. Non ero considerato un atleta modello: ballavo con Raffaella Carrà, ero ospite fisso da Minà e Maurizio Costanzo con Andreotti e De Michelis e alle feste con Franco Califano».
Poi le donne.
«A una trasmissione di Alberto Bevilacqua incontrai Manuela Falorni (attrice porno, nota come Venere Bianca, ndr). Uscimmo assieme la sera stessa, poi scappai dalla palestra: ci sposammo a Montecatini, venne anche Walter Chiari. L’anno dopo nacque Antonio. Spesi mezzo miliardo per costruire la nostra villa in collina: Manuela e sua madre mi buttarono fuori dopo un mese».
Pane per le cronache rosa.
«E per quelle sportive. Il modello era Patrizio Oliva, meno popolare e forte di me ma uomo di famiglia esemplare che dopo gli allenamenti torna sempre a casa dai suoi. Io che non avevo nessuno in ritiro impazzivo».
E quindi scappava.
«Scappavo e spendevo. A Genova vivevo a Bogliasco, con i giocatori della Sampdoria: invidiavo Mancini e Vialli in piedi fino a notte fonda a bere e fumare. Mi svegliavo alle 5 per allenarmi, non avrei potuto reggere la loro vita. Ma non resistevo alle donne».
Ecco il secondo matrimonio.
«Silvana. Architetto romano: nacque Samuel che oggi ha 20 anni. La storia durò poco».
Poi le terze nozze.
«Valentina Zincani, pugile anche lei. Troppo giovane, carattere duro come il mio: è nato Moussa che oggi ha 8 o 9 anni, non ricordo bene. Finì malissimo». (È tuttora in piedi un procedimento contro La Rocca per presunte lesioni ai danni della donna durante un litigio del 2018, ndr).
Colpa di?
«Mia».
Sente i suoi figli?
«Raramente purtroppo».
Oggi ci siamo visti dopo la quarta preghiera del giorno.
«Manca ancora quella serale: sono musulmano praticante. Molti pugili sono convertiti all’Islam: il rigore richiesto ai fedeli è lo stesso di uno sport che non tollera sgarri in allenamento».
L’incontro che le ha cambiato la vita?
«Quarant’anni fa a Milano durante una trasmissione tv. Arriva Gianni Minà e dice: “Nino, ti presento il mio amico Muhammad Ali”. E lui, come facciamo sempre noi ex pugili, si mette in guardia e mima il gesto di tirarmi un cazzotto». E lei? «Io cado in ginocchio come di fronte a Dio. Per soggezione ma anche paura: ha presente il destro di Ali?».