la Repubblica, 29 gennaio 2024
Intervista a Maurizio Cattelan
Nel 1991 Maurizio Cattelan arrivò tra gli stand di ArteFiera a Bologna, la prima manifestazione in Italia dedicata alle gallerie d’arte, con un banchetto abusivo in cui promuoveva una squadra di calcio composta da migranti. Provocazione che distrasse il pubblico dallo scintillio del mercato dell’arte, sollecitando riflessioni su un fenomeno che ancora coinvolgeva poco l’Italia. Ma con quel gesto Cattelan, allora agli esordi, definì i paradigmi del suo modo di fare e pensare l’arte, con azioni a sorpresa, spiazzanti e irriverenti, dove si esponeva in prima persona. Dall’1 al 4 febbraio ArteFiera torna a Bologna festeggiando i 50 anni e tra gli stand si ritroverà Maurizio Cattelan.
Cattelan, oggi tutti cercano l’esposizione mediatica mentre lei è assente dai social, fa una rivista di carta, compare poco: rispetto a qualche anno fa sembra essersi un po’ tirato fuori. È una strategia o è stanchezza?
«Non la definirei stanchezza, penso si tratti più di scarso interesse. I social media creano questa urgenza di essere sempre all’interno di una conversazione, ti obbligano a manifestare cosa pensi di questo o di quel trend per essere visibile. Non credo che tutti abbiano qualcosa di interessante o opportuno da dire per ogni trend sui social, e preferisco parlare solo di quello che conosco. Penso che ognuno dovrebbe avere il diritto all’oblio social, di tanto in tanto».
«Sto lavorando a due mostre, una sta per aprire al Moderna Museet di Stoccolma, la seconda aprirà a primavera a New York. Sono due imprese impegnative: in un caso insieme ai curatori del museo abbiamo costruito il riallestimento di opere della collezione che non uscivano dal magazzino da decenni. Nel secondo caso la curatela è di Francesco Bonami, mio partner-in-crime in molte avventure. Questa piccola collaborazione con Mutina invece è l’occasione per tornare a lavorare con Sarah Cosulich, che cura il progetto Mutina for Art. Sarah mi ha chiesto di mostrare all’interno dello spazio di Mutina in fiera un dialogo tra questi due lavori della collezione di Massimo Orsini fondatore di Mutina. Non è uno stand, non è uno showroom, non è una galleria d’arte, ma è anche tutte queste cose. Mi è sembrato giusto mantenere la promessa che avevo fatto in città: “Torno subito”».
Che rapporto ha con il mercato?
«Quello che ha chiunque con il mondo della borsa o della finanza. L’arte è fatta da persone, ognuna con la propria sensibilità. Il mercato dell’arte è un mercato come un altro, e funziona nello stesso modo: la legge della domanda e dell’offerta è l’unica legge che conta e questo non lo rende molto appassionante».
Nel 1991 fece uno stand abusivo, con il pop-up della squadra di migranti. Che momento era quello per l’arte e per lei?
«Un momento di studio: testavo il modo migliore per iniziare a parlare il linguaggio dell’arte. È stata un’opera in più atti. In quel periodo non mi ero ancora trasferito a Milano, stavo a Forlì e gravitavo intorno a Bologna. Avere una squadra di calcio è, oggi come allora, uno status symbol, non solo in Italia. Quelli erano gli anni di Gullit e di Berlusconi, ma anche delle navi di migranti che cercavano un futuro migliore in Italia, e della Lega Nord. Tutto questo sfociò prima in una squadra di calcio composta da giocatori migranti da quello che oggi chiameremmo Global South. La squadra si chiamava A.C. Forniture Sud, sponsorizzata da una fantomatica ditta Rauss. Andai a promuovere la squadra con uno stand abusivo ad ArteFiera quell’anno: ogni mattina sistemavo il tavolo, la sedia e, per sembrare più professionale, un telefono, e mostravo il pieghevole pop-up con la foto della squadra e lo stemma. Credo che Barilli mi abbia visto in quell’occasione e abbia deciso di invitarmi alla mostra Anni Novanta alla GAM di Bologna. Avrei voluto far giocare la squadra, ma nel museo non c’era lo spazio per improvvisare un campo da calcio, così ho pensato di declinare la stessa squadra su un biliardino fatto ad hoc, per undici giocatori. Incredibilmente ho trovato un produttore, Garlando, disposto a fare una modifica al loro prodotto, a patto di fare prima un test in azienda coi suoi dipendenti. È stata credo la cosa più vicina a una performance che io abbia mai fatto».
E oggi, visto l’uso che la propaganda politica fa dei migranti, servirebbe ancora il progetto Stadium?
«Oggi la strumentalizzazione di questo argomento è così mainstream che è nell’agenda di qualsiasi politico e questo la rende non interessante per l’arte».
Che cosa la ispira oggi? Più le scatole di sardine, i grandi classici, i musical, tre olive nel Martini, Miyazaki per citare alcune delle cose di un suo elenco…
«Mi interessano le zone grigie: quelle in cui niente è come sembra. L’arte non è solo arte, il design non è solo design, la moda non è soltanto moda, e le olive non sono soltanto olive».
Dove metterebbe oggi “Torno subito”?
«Sulla mia tomba».
Bologna è l’Alinovi, Gioni e anche Barilli. Lei che ricordi ha qui, dei posti e delle persone?
«È stata la prima volta in cui mi sono sentito parte di qualcosa: a Bologna ho visto le prime mostre con altri artisti. Ho avuto la fortuna di conoscere Roberto Daolio e averlo come primo punto di riferimento. Mi ricordo che la sua gentilezza mi spiazzava e la sua espressione era imperscrutabile: non era facile capire cosa stesse pensando, un vero giocatore d’azzardo… è stato il primo a scommettere sul mio lavoro».
Che effetto le ha fatto vedere il dito medio imbrattato dai ragazzi ambientalisti come un Van Gogh? È diventato un classico?
«Non è la prima volta che il mio lavoro viene vandalizzato, quindi non è stato uno shock. Ma questa volta è diverso. Le altre volte è stata una reazione viscerale alle opere: il caso più eclatante fu quando a Varsavia due membri del Parlamento polacco rimossero la roccia da La nona ora (la scultura iperrealistica con Giovanni Paolo II colpito da un meteorite, ndr) e tentarono di tenere la figura del Papa in posizione verticale. In questo caso invece non c’era la volontà di distruggere l’opera, o modificarla, ma di usarla come volano per la comunicazione. Se guardo alle altre opere prese di mira forse si può dire che sia diventato un classico: è un segno del tempo che passa. Penso che la causa ambientalista rimanga importante, anche quando i mezzi per pubblicizzarla non sono i più raffinati».
Lei ci ha spesso messo il corpo, ha usato i corpi, oggi la smaterializzazione di quasi tutto anche dell’arte che effetto le fa?
«Non vedo questa smaterializzazione nell’arte, anzi. Penso all’ultima Biennale di Venezia, Il latte dei sogni: il corpo era al centro di ogni opera. E anche se vado fuori dall’arte, la smaterializzazione, i social, sono solo una faccia della medaglia: la gente scende ancora in piazza per manifestare quando c’è da farlo».
Che cosa le piace, che artisti segue o che opere apprezza?
«Mi piacciono le zone grigie. In questo momento sto guardando molto l’attività di MSCHF, un collettivo di artisti – forse è limitante descriverli così – che lavora a cavallo con tantissime discipline, arte, moda, tecnologia e corporation, spesso mettendo alla prova il sistema e il potere per come lo conosciamo e subiamo oggi».
Dovremmo rivedere il concetto di spaesamento, che smantella certezze e solidità quando adesso ne abbiamo pochissime?
«Non sappiamo cosa succederà domani. L’incertezza è il futuro. Accettare che non possiamo controllare tutto è il primo passo per stare bene. Se bisogna scegliere tra il conosciuto o il cambiamento, io scelgo il secondo, proprio perché non so dove mi porterà».
Cosa resta dell’arte e dell’artista in un’epoca in cui non solo tutti sono consumatori ma anche produttori?
«Penso che si possa fare arte anche con un pubblico di una sola persona significativa».
Le sue speranze?
«Se avessi la macchina del tempo andrei a tirare fuori la speranza dal vaso di Pandora. È rimasta chiusa là dentro troppo a lungo».