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 2024  gennaio 29 Lunedì calendario

Bloccare Suez blocca la Bce: il rischio che riparta

Finora c’era almeno un fatto positivo: nonostante i missili degli houthi yemeniti contro le navi commerciali nel Mar Rosso abbiano già iniziato a compromettere le consegne di gas e greggio in Europa, i prezzi dell’energia non sono saliti (il gas di Amsterdam venerdì quotava 28 euro al MWh e il petrolio a Londra e di New York, pur aumentato, era a quota 80 dollari al barile). Questo almeno fino a venerdì, quando un missile ha centrato una petroliera di Trafigura (società di Singapore) che – ironie della storia – pare trasportasse greggio russo caricato al largo della Grecia: bisogna vedere oggi come la prenderà il famoso mercato.
La notizia cattiva, in generale, è che la guerra mondiale a puntate ha ora un suo piccolo focolaio che – si parva licet – attenta all’11% del commercio marittimo mondiale, quello che passa dal canale di Suez, in Egitto, la cui attività è già dimezzata rispetto al normale. Brutta notizia, specie perché la mancanza d’acqua nel canale di Panama stava spostando traffico verso il Mar Rosso: non bastano a riequilibrare la situazione i pochi e piccoli cargo cinesi che ora si stanno dirigendo nei porti dell’area convinti di essere immuni dai missili.
Il vero problema della “disruption” di una così importante catena di fornitura non è tanto l’impatto diretto sulla crescita, perché le merci troveranno altre vie, quanto quello sui prezzi: se la crisi durasse a lungo, i maggiori costi potrebbero interrompere la disinflazione e spingere le banche centrali a rinviare la riduzione dei tassi. Il precedente del caro-prezzi dovuto ai “colli di bottiglia” nella logistica del 2021 è troppo recente per ignorarlo. Insomma, non sarà il battito d’ali d’una farfalla, ma un piccolo missile dall’altra parte del mondo può causare un terremoto alla Fed e alla Bce.
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Per i distratti, un piccolo riassunto. Siamo nello Stretto di Bab el-Mandeb, che poi significa “la porta del lamento funebre”, nome non esattamente benaugurante. È lì che il gruppo Houthi dello Yemen, che vive una pericolante tregua con l’Arabia Saudita dopo anni di guerra ed è alleato dell’Iran, ha deciso di attaccare con missili e navi pirata i cargo israeliani e degli alleati di Israele in solidarietà coi palestinesi: Teheran gode; Riadh non vuole e non può riaprire quel capitolo; una missione a guida Usa spara contro lo Yemen a protezione delle navi commerciali, ora ne arriverà una più timida dell’Ue. La sostanza è che da metà dicembre, quando gli attacchi degli Houthi si sono fatti insistenti, nel Mar Rosso si naviga poco e qualche colosso delle spedizioni – Maersk, Cma Cgm, Msc, la cinese Cosco – ha già deciso di evitare la rotta che da e per il canale di Suez. Il risultato è che – secondo il “Portwatch” del Fondo monetario – a Bab el-Mandeb la scorsa settimana si è dimezzato il transito di merci rispetto agli stessi giorni del 2023 (35 tonnellate metriche invece di 71) e pure a Suez siamo lì (41 invece di 72).
Questo, in condizioni normali, comporta due ordini di problemi: qualche ritardo nelle forniture (15-35 giorni atttualmente) e un relativo aumento dei costi nei viaggi da e per l’Asia (tipicamente attorno al Capo di buona speranza in Africa o lungo la rotta artica, sempre più battuta, addirittura via aereo o treno). Solo che le condizioni normali non esistono più: come già nel dopo-Covid l’interruzione delle catene di fornitura comporta aumenti dei costi di trasporto mai visti prima. Sta accadendo anche ora: a fine ottobre spedire un container standard da 40 piedi da Shangai a Genova costava 1.344 dollari, all’ultimo aggiornamento del 25 gennaio 6.325 dollari (il 370% in più). L’aumento esplosivo dei costi però non riguarda solo le rotte che utilizzano il canale di Suez, ma tutte quelle dai maggiori porti asiatici: spedire un container da Shangai a Los Angeles costava 1.961 dollari tre mesi fa e 4.344 dollari oggi; l’indice Wci (Dewrey World Container Index) che misura i costi sulle otto maggiori rotte marittime segnava 1.341 dollari a container a fine ottobre e 3.964 dollari giovedì. Se questa situazione non rientra a breve, i maggiori costi non potranno che scaricarsi sui prezzi finali: per questo alcuni analisti nell’ultima settimana hanno rivisto la previsione di un taglio dei tassi in Europa già ad aprile.
E l’Italia? Purtroppo è tra i Paesi che rischiano di più. Intanto una chiusura o un funzionamento a singhiozzo di Suez metterebbe a rischio il sistema portuale, a partire da Genova e Trieste, e un pezzo non irrilevante del trasporto via terra: quello che non passerà dal Mar Rosso arriverà infatti nei grandi porti del Nord Europa, Rotterdam e Amburgo su tutti. La diminuzione del traffico già si vede nell’operatività dei nostri porti, calata fino al 20%. L’Italia non è una potenza portuale: l’impatto diretto sul Pil sarebbe a livello di decimali (sempre a stare al sito Portwatch), pesante invece quello sull’occupazione.
Un altro danno possibile riguarda le forniture di gas: il Qatar, che vale il 10% dell’import italiano, ha fermato le metaniere nel Mar Rosso e qualche consegna è già saltata (gli stoccaggi pieni, per ora, ci proteggono). Poi ci sono i danni alle imprese per l’aumento dei costi e per i ritardi, almeno in questa fase in cui le catene di fornitura non si sono ancora riorganizzate, mentre è poco probabile che il valore dell’import-export finora bloccato a Suez vada perso e basta (95 milioni al giorno, 36 miliardi in un anno secondo un calcolo di Confartigianato).
Come che sia, non certo una buona notizia per un Paese con la crescita ferma e un quadro traballante dei conti pubblici, ma è pessima per quelle imprese, specie le piccole e micro, che dovranno ammortizzare un nuovo aumento dei costi. Diversi settori produttivi, d’altra parte, dipendono assai dal commercio con l’Asia finora passato dal Mar Rosso. L’agroalimentare, ad esempio, è sotto schiaffo: dal canale egiziano passa il 67% del riso importato in Italia o il 47% degli oli vegetali e il 52% dell’import totale del settore (dati del centro studi Divulga citati dal Sole 24 Ore); nell’altra direzione vanno circa 5,5 miliardi di esportazioni (Coldiretti). E qui i ritardi, specie sui prodotti freschi, sono perdite secche per le aziende. Anche il sistema moda e occhialeria è in allarme: importa materiali, semilavorati e prodotti finiti per 50 miliardi l’anno, un terzo dei quali da Suez. E ancora: il settore del legno e dell’arredo nel 2023 ha fatto passare dal Mar Rosso il 19% dell’import e il 15% dell’export (rispettivamente 1,9 e 2,5 miliardi). Stesso discorso per elettronica e elettrotecnica: da Suez passano 6,2 miliardi di esportazioni (23% del totale) e 5,4 miliardi di acquisti (27%) del settore.