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 2024  gennaio 29 Lunedì calendario

Traditi dall’Ilva


«Caro Monsignore. Le scrivo in merito alle parole da Lei dette in riferimento alla chiusura dell’ex Ilva. Quelle che mi hanno fatto più male sono state “La chiusura sarebbe veramente una catastrofe, che significherebbe non pensare al bene di una comunità”. Quale bene? Quello del Dio denaro? Che Lei non dovrebbe rappresentare. Lei dovrebbe rappresentare il bene fisico e morale della comunità, anzi dovrebbe difendere a denti stretti la nostra vita. La invito a venire con me un giorno a fare la chemioterapia all’ospedale Moscati di Taranto, ci sediamo insieme sulla bella poltrona verde o azzurra e Le racconto la mia storia mentre mi infondono nelle vene quel veleno senza il quale non potrei vivere». Paola Netti mi accoglie a casa sua, ormai esce solo per andare in ospedale ogni settimana per la chemioterapia. Vive a Statte, è cresciuta al quartiere Tamburi. Praticamente una vita tra due fuochi.
Immaginate due mani, quelle mani sono proprio Statte e Tamburi, che cingono strette la fabbrica di acciaio. Ha iniziato a soffrire di endometriosi da giovanissima: «Ho capito subito che non avrei mai potuto avere figli». Suo marito le sta accanto come un angelo fedele dagli occhi spenti. Paola perde prima suo padre, tumore al colon. Sua sorella nasce con problemi ai reni, entra in dialisi, affronta due trapianti. E infine lei. Tumore al colon. «Ma non mi sono fatta mancare niente: ho recidive al fegato, lesioni ai polmoni e carcinosi peritoneale. Comunque non mi piango addosso, non c’è tempo. E per favore non scriva che sono ambientalista». Perché? «Nessuno deve strumentalizzare la mia lettera all’arcivescovo di Taranto Ciro Miniero. Io ho criticato la sua omelia del 9 gennaio scorso da cittadina che frequenta l’ospedale, che è cresciuta a Tamburi, che è stata riempita di chiacchiere da chiunque sia venuto a sfilare in città. Se era possibile una produzione sostenibile perché non l’hanno fatta. Dove sono i forni elettrici? E l’idrogeno? Come mai i carabinieri del Noe indagano sui picchi di benzene? Siamo gente semplice ma non siamo fessi, anche noi sappiamo leggere».
Dopo l’omelia e la lettera di Paola, Monsignor Miniero è stato travolto dalle critiche. «Sono state equivocate le mie parole – ha precisato l’arcivescovo –. La mia posizione quale vescovo di Taranto in merito alla vicenda del siderurgico non si discosta dalla via maestra che è stata segnata dalla Laudato sì di Papa Francesco: sviluppo sostenibile e cura del Creato».
Paola, come tutti, non ha alcuna certezza che la sua malattia sia stata causata dall’inquinamento ma come molti è convinta di essere stata avvelenata. «È la storia dei poveri. Perché in quelle stanze dell’ospedale a fare la chemio con me incontro soprattutto persone di Tamburi, Statte e Paolo VI?».
Ho letto in questi giorni che a Taranto si starebbe rivivendo il copione già visto del 2012, cioè quando la grande fabbrica subì il sequestro senza facoltà d’uso dell’area a caldo e la città si paralizzò: salute contro lavoro, operai contro ambientalisti, famiglie spaccate. Non è così. Taranto oggi sembra un essere umano in coma. Nel 2012 c’erano rabbia e speranza. Nel 2024 ci sono silenzio e rassegnazione: in molti preferiscono non pronunciare nemmeno la parola “Ilva”. Se non la nomini, forse il problema non esiste più. Meglio voltare lo sguardo verso i delfini, comunità antica di questo Golfo che sopravvive nonostante tutto, o sul miraggio dei Giochi del Mediterraneo, giugno 2026, come quando invochi un miracolo per salvarti.
Antonio Motolese nel 1999 era operaio per una ditta d’appalto indotto ex Ilva. Fece un volo da sei metri, due giorni in coma. «Ho vissuto una dimensione parallela, vedevo mio fratello morto giovane e io chiedevo di andare con lui, ma c’erano tante gambe a spingermi via. Alla fine mi sono risvegliato». Più di venti punti in testa, un’invalidità permanente che non gli ha più consentito di tornare ad essere l’uomo di prima. Nessun risarcimento per una brutta storia di avvocati che invece di fare i suoi interessi fecero quella dei padroni. E poi dal 2015 in cassa integrazione Ilva in amministrazione straordinaria.
«Mia moglie mi dice di buttare tutte queste carte, di non pensare più al passato». Lui invece le sfoglia davanti a me nervosamente come un uomo ferito che non accetta di essere stato truffato. Trattiene a stento le lacrime, mostra i regali di sua figlia per Natale: «Guarda. Buoni spesa per comprare il pesce. Che vergogna. Non rientreremo mai più in fabbrica. Indebitati con le case da pagare e abbandonati dallo Stato per sempre. Datemi almeno un incentivo degno per andarmene».
Fabio Cocco lo incontro al Mini Bar di Tamburi di Ignazio D’Andria, il bar davanti alla chiesa dedicata a Gesù Divin Lavoratore dove le ciminiere sono dietro il Cristo in Croce. Ignazio è l’uomo che con la collega Nadia Toffa, amata, rispettata, un’istituzione da queste parti, creò la maglietta “Ie Jesche Pacce Pe Te!!” Io sono pazzo di te. Vendendole, raccolsero 500 mila euro da tutta Italia. Nacque così il reparto di oncoematologia pediatrica all’ospedale Santissima Annunziata. «Perché qui non solo hanno versato ogni tipo di veleno, ma i bambini non si potevano nemmeno curare» ricorda Ignazio con gli occhi lucidi.
Fabio Cocco alle 14 inizia il secondo turno. Viene ad incontrarmi con sua moglie. C’è anche una regista italo inglese in città che sta raccogliendo storie per un suo film sull’acciaio strategico italiano. «Io non ho paura di niente, parlo, denuncio, l’ho fatto anche davanti alla Morselli (l’amministratore delegato di Acciaierie d’Italia, ndr). Lì dentro la situazione è pericolosa, non si fa più manutenzione. Mi faccio il segno della croce e vado a guadagnare il pane. Andarmene? Basta, non ce lo chiedete più. Non possiamo andare da nessuna parte. Siamo in gabbia. E poi anche se me ne vado io e la fabbrica resta così che cambia? Sempre a Tamburi sono incastrato».
Al sesto piano dell’ospedale Santissima Annunziata, c’è Valerio Cecinati, primario del reparto pediatrico nato con la beneficenza dell’Italia intera. Cecinati è preoccupato da come la stampa da sempre tratta il tema del rapporto tra inquinamento e salute. «Qui non serve sparare percentuali allarmistiche per creare altro terrore. Non è questo il metodo giusto. A noi servono studi epidemiologici a tappeto. Su tutti: bambini e adulti. E su tutte le patologie, non solo i tumori. Per me non fa differenza che sia un bambino o dieci ad ammalarsi a causa dell’inquinamento. Anche un singolo caso lo ritengo insopportabile. Non ci servono pompieri né piromani, solo gente onesta finalmente pronta a non nascondere la sabbia sotto il tappeto e a fare tutte le ricerche possibili per rispondere al legittimo senso di paura e insicurezza della cittadinanza. Chi non ha niente da nascondere si comporta così. Lo Stato deve agire così».
I dati a nostra disposizione ci dicono cose però già alcune cose chiare e incontrovertibili. «Certo. Si stima un aumento di tumori respiratori, di accidenti cardiocircolatori, di tumori della tiroide o della vescica, di tumori dell’apparato emopoietico (studio Sentieri con il suo ultimo aggiornamento, studio Forastiere del 2019), di infertilità, di endometriosi. L’ultimo studio dell’Istituto Superiore di Sanità del 2021 descrive l’allarmante riduzione del QI (quoziente intellettivo) dei bambini nati e/o residenti vicini alla fabbrica, aumento di malformazioni nei nati a termine, aumento degli aborti spontanei, leucemie e linfomi».
Anche la Corte Europea dei Diritti Umani ha condannato nel 2019 l’Italia per la violazione dell’articolo numero 8 ("Diritto al rispetto della vita privata e familiare") e dell’articolo numero 13 ("Diritto a un rimedio effettivo") della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (Cedu). «Dateci un esercito di epidemiologi, bisogna rispondere alle domande legittime di chi vive con il terrore».
Il 19 gennaio le imprese dell’indotto hanno bloccato l’accesso alla città con 150 camion fermi sulla statale 106. Quando arrivo il presidio è all’ingresso della portineria C. Fabio Greco, presidente dell’Aigi, associazione a cui aderisce l’80% delle imprese dell’indotto del siderurgico: «Caro ministro Urso, perché non fai aumento di capitale, passi al 75% e diventi azionista di maggioranza e fai la governance? Urso invece ha detto che l’unica possibilità legale è l’amministrazione straordinaria. Per me sono chiacchiere». Perché non volete l’amministrazione straordinaria? Non mi sembra ci sia alternativa e nemmeno alcun dubbio sulla strategia che sta portando avanti Mittal nei confronti dell’Italia. I lavoratori non rispondono, indicano con la mano i datori, la maggior parte chiede che non vengano messi i nomi. «Non credere a Pinocchio» mi incalza di nascosto un operaio. In che senso, scusa? «Chiedi ai padroni perché non hanno fatto uno sciopero contro la Morselli prima». Non faccio in tempo a capire cosa mi sta dicendo che sparisce nella folla.
Nel frattempo intorno a me arrivano gli autotrasportatori. «Noi trasportatori abbiamo fatto una conferenza stampa il 27 dicembre 2023 chiedendo il pagamento delle fatture. Non ricevendo nessuna risposta siamo entrati in assemblea permanente. Il 4 gennaio ci hanno pagato le fatture di dicembre 2022. Siamo rimasti in presidio. Una mattina sono scesi dei dirigenti e ci hanno chiesto cosa stavamo facendo. Gli abbiamo risposto sarcastici: una scampagnata. Le nostre Pec di messa in mora la Morselli le avrà lette? Vogliamo i nostri soldi. Ci hanno dato il contentino pagando solo le fatture di luglio e agosto scorso. La Morselli è una brava dirigente a distruggere le aziende. Forse qualcuno le ha detto: trai il massimo profitto non spendendo una lira? Scriva il mio nome: Giacinto Fallone», coordinatore settore autotrasporto Casartigiani Taranto.
Le aziende dell’indotto vantano crediti che non possono portare in banca per farseli anticipare. Nel 2015 hanno perso 150 milioni, pagando comunque tasse, oneri finanziari e Iva. Adesso i crediti ammontano a 135 milioni. Oggi tocca ai sindacati confederali scioperare: Uilm, Fiom, Fim insieme a Usb saranno in corteo lungo il perimetro della fabbrica. La situazione non è come quella del 2012 e nemmeno del 2015 e neanche del 2019. È di gran lunga peggiore. L’Altoforno 1 è fermo. Giorni fa è stato spento l’Altoforno 2. L’Altoforno 3 e l’Altoforno 5 (il più grande) sono fermi da tempo. «Afo 4 è l’unico acceso ma al minimo della carica – chiosa Davide Sperti segretario della Uilm Taranto –. L’indotto è fermo. Solo debiti nei confronti di chiunque. Questo continuo scambio epistolare tra il governo e Mittal è insopportabile. Siamo sull’orlo dello spegnimento. La strategia di Mittal è quella del logoramento. Martedì saremo a Roma in audizione al Senato per la conversione in legge del decreto. C’è tempo fino all’8 febbraio per gli emendamenti che devono garantire crediti per l’indotto. Senza l’appalto non ci sarà nessuno stabilimento e tantomeno la decantata “transizione ecologica”. La cassa integrazione in deroga per tutti i lavoratori non può essere la soluzione in assenza di una prospettiva. Serve restituire la dignità del lavoro dopo anni di arretramento di diritti costituzionalmente garantiti».