la Repubblica, 29 gennaio 2024
Il canone inverso dell’inno cantato in Parlamento
Martedì scorso, quando è stata approvata la legge sull’autonomia differenziata, la sinistra ha intonato l’inno di Mameli, ma contro la destra, che ha risposto intonando, a sua volta, l’inno di Mameli, ma contro la sinistra. Ed è diventata più affascinante che grottesca la scena dei senatori che, per dividersi, cantavano tutti insieme, ma in opposizione e non in coro, l’inno dell’unità d’Italia. Ci fossero state due orchestre, la musica sarebbe stata solo fracasso, perché ciascuno dei due tempi melodici – la musica (politica) di destra e la musica (politica) di sinistra – si sarebbero ri-sfalsate in quattro, otto, ottantotto tempi, uscendo fuori dal pentagramma.
Invece, senza strumenti, le voci con i due tempi sfalsati, quelle di destra che stonavano “dov’è la vittoria?” nello stesso momento in cui quelle di sinistra stonavano “siam pronti alla morte”, somigliavano a quel contrappunto che si chiama “canone”, anche se eseguito malamente, molto peggio che nelle “canzoni stonate” di Gianni Morandi. Un canone, spiegano gli esperti, si realizza quando due cori cantano, contemporaneamente, momenti distinti della stessa melodia: a sinistra “calpesti, derisi perché siam divisi” e a destra “ché schiava di Roma Iddio la creò”. Si realizza così una polifonia sensata, una sfalsatura organizzata, una divisione certo, ma unitaria, in armonia di sistema. Il canone più famoso è quello barocco di Pachelbel che tutti, sentendolo, riconosciamo anche se non lo conosciamo, perché ispira la base di molte canzoni pop e rock. Ebbene, forse mai l’inno di Mameli era riuscito a raccontare così fedelmente l’Italia: due stonature sfalsate della stessa canzone e ciascuna ri-sfalsata anche dentro il proprio tempo, sia a destra e sia a sinistra. C’era, infatti, il tempo del direttore d’orchestra Roberto Calderoli che, già nell’epoca secessionista di Bossi e Maroni, era stato elevato, da capobanda leghista che voleva spaccare l’Italia, al rango dello statista che lavorava per demolire lo Stato. E c’era, sempre a destra, il tempo tradito della melodia “nazionalarda” e patriottarda, ma unitaria dell’ex Msi. A sinistra, e un po’ anche a destra, c’era il dolore del Sud per questa legge, brutta e umiliante, a cominciare dallo stupido nome di “autonomia differenziata”. E c’era chi a sinistra seguiva il tempo sofferente della penitenza per avere aderito a un federalismo che non ha preso, come negli Usa e in Germania, la forma dello Stato, ma sempre dell’attacco al cuore dello Stato. Nel coro di sinistra c’era pure chi quell’inno ancora disprezza la “brutta marcetta che ci cinge la testa con ridicoli elmi di Scipio”. Ecco perché era affascinante l’inno cantato in opposizione: male, sfalsato e stonato, ma finalmente conteso come qualsiasi bene comune. A riprova che l’inno, tanto più si ascolta bene quanto più è cantato male. Proprio come l’Italia, che quanto più va male, tanto più le si vuole bene.