Corriere della Sera, 28 gennaio 2024
Intervista a Daniele Silvestri
«Quand’ero al liceo mi presero in una tribute band dei Duran Duran».
Merito di un baratto.
«Per un anno lavorai ai fianchi mio padre, fingendo di volere a tutti i costi un motorino, sapendo che non me lo avrebbe mai comprato, in realtà avevo puntato una tastiera rivoluzionaria, una Yamaha DX7. Per chi suonava era un sogno e costava tanti soldini, un po’ più di uno scooter. A un certo punto ho virato: “Se proprio non vuoi accontentarmi, almeno comprami la tastiera”. A papà non sembrava vero e me l’ha regalata immediatamente, anche se la mia famiglia non navigava nell’oro. Quando l’hanno saputo, i ragazzi della band mi hanno preso a scatola chiusa senza nemmeno un’audizione».
Daniele Silvestri ti porta sempre dove non ti aspetti. Nelle sue canzoni passa dalla danza della paranza alla «favola cubana». Festeggia trent’anni di carriera con 30 concerti, tutti al Parco della Musica, a Roma. A luglio salirà sul palco del Circo Massimo con gli amici di sempre Niccolò Fabi e Max Gazzè, e Paola Cortellesi ha voluto la sua canzone «A bocca chiusa» nel primo film da regista «C’è ancora domani». «Quando mi hanno invitato a vederlo mi sono ritrovato in lacrime. Paola ha fatto una magia e ha dato alla mia canzone un significato nuovo».
Siete amici da tempo.
«La incontrai alla fine degli anni Novanta, per Frankensteinmusical. Provinammo un discreto numero di attrici-cantanti, fra loro c’era Paola, la più brava. Al nostro “Ti abbiamo scelta” rispose: “Purtroppo ho altro da fare”. Era stata presa in Rai, per una trasmissione di Boncompagni».
Papà Alberto, sceneggiatore e coautore del Maurizio Costanzo show.
«Era una persona dall’aspetto serio che incuteva un timore reverenziale. Colto, ma stupiva con l’ironia. Faceva scherzi in continuazione. Da lui ho imparato a mettere insieme impegno e leggerezza».
E a giocare con le parole, quand’era piccolo con papà parlavate in rima.
«Era un gioco, avrò avuto 4 o 5 anni. Diventò un esercizio di abilità che mi ha permesso, anni dopo, di avere un mestiere in mano».
Per la musica deve ringraziare mamma Emanuela.
«Con lei ho visto un sacco di musical in Inghilterra: “Il fantasma dell’opera, “Jesus Christ Superstar”. Da piccolino mi cibava con il jazz. Bolognese, da giovane cantava. C’era lei sul palco quando Pupi Avati si sentì male e venne sostituito da Lucio Dalla con il suo clarinetto».
Dalla diventò un amico di famiglia.
«Mi inviò il primo telegramma per complimentarsi quando mi ascoltò a Sanremo con “L’uomo col megafono”. Le sue parole e il premio Tenco mi hanno convinto che questo lavoro potevo farlo».
Non ne era sicuro?
«Che la musica potesse essere il mio mestiere era già assodato, però mi immaginavo dietro le quinte, come autore e musicista».
A comporre ha iniziato presto.
«A 13 anni, mi piaceva e mi sembrava di essere in grado di farlo. Ma fino all’università vedevo tanti futuri possibili, non ero convinto né desideroso di finire su un palco. Non volevo essere al centro dell’attenzione, anzi cercavo di dissuadere chi me lo proponeva. Facevo ascoltare audiocassette in giro pensando: qualcuno prenderà questa canzone, qualcun altro quest’altra, fino a quando ho incontrato il produttore Enzo Miceli: “Queste le puoi cantare soltanto tu”».
E si è convinto.
«Fin dal primo minuto che ho iniziato a fare questo mestiere ho pensato che non ne sarei stato capace se mi fossi preso sul serio. Ho sempre fatto il contrario, scherzo su quello che sto per fare o dire. Tutto sommato cammino agevolmente sul filo del confine fra ironia e impegno».
I suoi genitori la incoraggiavano?
«Sì, ma sforzandosi di non sembrare troppo entusiasti, nascondendo l’orgoglio. Quando arrivò il primo contratto discografico avevo 23 anni e una vita mia».
Però è stato il teatro il suo primo amore.
«Ho cominciato a lavorare con le sonorizzazioni e a scrivere musiche per spettacoli. Frequentavo ancora il liceo, avevo 16-17 anni».
Come è nata questa passione?
«Il teatro ha sempre unito mamma e papà. Da casa passavano attori, registi, musicisti, non per forza famosi. Io ero l’unico bambino, o quasi, fra tanti adulti e la vivevo come un ragazzino con dei genitori che avevano degli amici particolari. Erano così istrionici che assistevo a uno spettacolo continuo e affascinante. Dovevano abbattermi per farmi andare a dormire».
Avrà visto passare da casa parecchia gente. Anche Costanzo ?
«Maurizio è arrivato un po’ dopo, quando ero più grandicello. Aveva la capacità di notare tutto, di cogliere anche le cose intime di una persona, quasi mi spaventava. Succedeva quando stava in trasmissione ma pure se andavi con lui in trattoria. Non c’ho mai parlato tanto, aveva sempre da fare con mio padre, però se rivolgeva l’attenzione verso di me individuava subito il problema».
Primo Festival di Sanremo, 1995, «L’uomo col megafono».
«Ci andai con l’incoscienza di uno che aveva appena iniziato e che non si faceva molti problemi a proporre cose strane. Ricordo con affetto la rassicurante presenza di Pippo Baudo, nonostante fosse un monarca assoluto del festival, temuto da chi lavorava con lui. Con me fu paterno, mi incoraggiò. Sul palco arrivavo con uno sgangherato zaino verde, dal quale tiravo fuori ’sti fogli di cartone con sopra scritto il testo della canzone. E lui, mica disse: questa cosa fa schifo, lasciamo perdere. Anzi, gli piaceva. In Baudo trovai un alleato improbabile».
Improbabile anche la sua collaborazione con Camilleri.
«Sono stato prima di tutto un divoratore dei suoi libri. Ci siamo conosciuti alla mostra di Nino Cordio, padre di Francesco, uno dei miei migliori amici. Seduti uno accanto all’altro, trovai il coraggio per chiedergli di raccontare una storia nel mio album. Era già bello avanti con gli anni, ci vedeva molto poco, non aveva voglia di muoversi troppo. Andammo a registrare a casa sua. Uomo generosissimo, piacevole, splendido».
«Buonasera signor Paoli, sono Daniele Silvestri». E lui: «Chi?». Questa telefonata l’ha incisa ne «la chatta», parodia de «La gatta». Andò così?
«Più o meno. Sapeva chi ero: uno dei tanti ragazzetti che venivano molto dopo di lui. Non lo conoscevo, dovevo chiedergli il permesso per la sua canzone, mi avevano messo in guardia: “È difficile stanarlo”. Invece è pure venuto in studio per registrare il siparietto e per cantare la sua canzone storpiata. Si è divertito».
Sembra divertirsi molto anche con Niccolò Fabi e Max Gazzè. Mai un litigio?
«No, il che è incredibile: siamo estremamente diversi ma anche complementari. Quando stiamo insieme il tempo non sembra essere passato... almeno per noi. Torniamo con facilità a trent’anni fa, quando ci incontravamo al Locale, il piccolo club dove tutto è iniziato. Parliamo un sacco, siamo persone curiose. L’ultima volta che ci siamo visti per decidere se tornare in concerto insieme abbiamo passato due giorni in un casale in Umbria. E come dei ragazzetti abbiamo suonato, perché avevamo ognuno qualche strumentino, giocato a biliardo, a tennis, visto la Roma in tv».
È uno sfegatato tifoso giallorosso?
«Abbastanza appassionato... purtroppo».
Amico di?
«In realtà conosco quasi solo Daniele De Rossi. Qualcuno l’ho incontrato, Francesco Totti l’ho conosciuto almeno quattro volte. Nel senso che per almeno quattro volte gli sono passato accanto, mi hanno presentato e gli ho stretto la mano, non pensando che potesse sapere chi fossi».
Com’è il rapporto con i suoi tre figli: Pablo, Santiago e Oliver?
«Sicuramente, come forse tutti, ho fatto degli errori, non sempre sono stato presente come avrei voluto, ma so di esserlo stato in tanti altri momenti, per fortuna. A volte mi fanno arrabbiare, è normale. Ma ci vogliamo molto bene, credo che i miei figli mi vogliano bene quasi quanto io ne voglio a loro».
Tutti e tre si circondano di musica.
«In maniera diversa. Il più grande, Pablo, è a sua insaputa un potenziale musicista bravissimo. Suona molto bene batteria, chitarra e pianoforte, ma lui pensa il contrario. Da poco ho scoperto che ogni tanto con i suoi amici si vede nel mio studiolo casalingo. Solo che non me lo dice, ha molto pudore. Santiago invece è super espansivo, ti sommerge con i suoi gusti e le sue passioni che in alcuni periodi sono state anche discutibili. Ora non più».
Oliver ha dieci anni.
«È forse di tutti e quattro, me compreso, il più talentuoso. Anche lui ha voluto studiare la batteria. A un certo punto ha deciso di farsi dare delle lezioni di pianoforte da me, il suo papà. Mi ha impressionato. A casa abbiamo una tastiera che lo rilassa, la suona quando c’è agitazione. È una cosa che apprezzo perché so che così ha una medicina sempre disponibile».
«Sono un cantautore comunista».
«Non lo rinnego, l’ho detto spesso ai miei amici... per scherzare. Oggi non mi ritrovo quasi da nessuna parte. Ma esistono realtà locali che ti spingono a combattere battaglie che non finiscono mai. Per fortuna persone decenti ce ne sono, più a sinistra che dall’altra parte».
Il più a sinistra è il Papa, ha detto.
«Sì, appena Francesco si era insediato sul suo scranno, quando a sinistra non sentivo più dire cose di sinistra, con il tempo ci ho rinunciato. Era una provocazione, ma regge benissimo anche adesso».