Corriere della Sera, 28 gennaio 2024
Chi abusa della Storia
Non è necessario essere allievi di Irving o Faurisson. Né abboccare al rapporto Leuchter, «Fine di un mito», sull’inadeguatezza «tecnica» delle camere a gas di Auschwitz a realizzare lo sterminio.U n certo tasso di turpitudine negazionista può restarsene ormai confinato in qualche scantinato dell’estremismo nostalgico, al limite tra psicopatologia e folclore nero. Ci sono invece vie più sottili, molto più trasversali e, in qualche caso, perfino inconsapevoli per riversare dosi tossiche di antisemitismo nel discorso pubblico.
Come spiega la storica tedesca Juliane Wetzel, che ha lavorato al tema anche per conto del Bundestag, lo scopo della negazione della Shoah era, è, la sua cancellazione per legittimare il nazismo: qualcosa di non molto dissimile, fatte le proporzioni, dal macabro lavoro dei Sonderkommando 1005 che bruciavano i corpi delle vittime nei luoghi delle esecuzioni di massa per occultarne le tracce. Ma il rifiuto puro e semplice ad accettare la verità storica di sei milioni di assassinati è ormai insopportabile per la maggioranza delle coscienze e, anche grazie alla grande opera di testimonianza svolta in questi ultimi decenni dai sopravvissuti e dalle comunità ebraiche, balza agli occhi come un lampo nella notte.
Assai più difficile, sostiene Wetzel, è invece «capire e riconoscere» la falsificazione della Shoah e la distorsione della sua unicità, praticata fino a renderla un evento, sì, drammatico ma in sostanza comune e assimilabile a tanti altri, una sorta di topos di tutti e di nessuno, metro e contenitore d’ogni avversità collettiva (esemplare il delirante uso delle stelle gialle dei deportati fatto dagli antivaccinisti per protestare contro il Green Pass al tempo del Covid). Ciò che è avvenuto quest’anno nel Giorno della Memoria e alla sua vigilia sembra confermare tale abuso pubblico della storia, la banalizzazione dell’Olocausto dopo la banalità del Male.
Al netto delle troppe parole d’ordine inaccettabili, sarebbe miope non vedere nei giovani palestinesi e negli italiani della sinistra radicale che manifestano con loro nelle nostre città (anche sfidando i divieti) un genuino afflato solidale per la popolazione di Gaza, i suoi lutti, il terrore dei bombardamenti, i possibili crimini di cui può essere fatta segno da Tsahal, l’esercito di Gerusalemme. Ma rilanciare, come è stato fatto, contro Israele il concetto assai peculiare di genocidio (dei palestinesi) proprio nel Giorno della Memoria è un’operazione diversa, con un segno culturale ambiguo. Solo una profonda inconsapevolezza del senso della Shoah per gli ebrei può spiegare (in parte) un esproprio di Primo Levi che sa di beffa: l’uso, nella piattaforma filopalestinese, delle parole con cui ammoniva che «conoscere è necessario perché ciò che è accaduto può ritornare», tale da far insorgere la presidente dell’Unione delle comunità ebraiche italiane, Noemi Di Segni, contro un ribaltamento che finisce per coincidere con la peggiore propaganda di Hamas.
Non è certo l’inconsapevolezza ciò che aiuta invece a comprendere la scelta di tempo della Corte internazionale dell’Aia, davanti alla quale Israele è stato trascinato con un’accusa di genocidio che ha due elementi paradossali: colpisce chi ha subito il più grande genocidio della storia e lo fa subito dopo l’assalto del 7 ottobre, questo sì genocida («scientifico» come l’ha definito il nostro ministro Tajani) dei miliziani di Gaza ai kibbutz. Mentre si discute all’Aia più di cento ostaggi languono ancora nei tunnel di Hamas e tante prigioniere ebree vengono violentate sistematicamente dai carcerieri. Il primo pronunciamento della più alta istanza giudiziaria dell’Onu non è affatto «storico» come certa propaganda prova a sostenere. È, anzi, molto cauto poiché, pur ritenendo plausibile l’accusa comunque da valutare, non nega con l’imposizione di un cessate il fuoco il diritto di Israele a difendersi dal terrore e si limita a raccomandare la prevenzione dell’asserito genocidio dei palestinesi suggerendone una protezione umanitaria efficace. È piuttosto la scelta di tempo a costituire un proclama, l’opzione politica che si ha forse pudore di esplicitare si nasconde nel calendario. La data del 27 gennaio per il Giorno della Memoria è stata scelta proprio dall’Onu perché nel 1945 segnò la liberazione di Auschwitz. Ora, che la Corte abbia voluto manifestarsi alla vigilia, con un indiscutibile danno reputazionale per Gerusalemme e il conseguente plauso di Hamas, vale uno statement, serve a dare un segno. Capita però che nello stesso giorno arrivi un segno forse ancora più rilevante. Israele ha portato prove del coinvolgimento diretto nel pogrom del 7 ottobre di almeno una dozzina di funzionari dell’Unrwa. È una realtà nota a tutti da anni, ma sulla quale tutti hanno sempre fatto finta di nulla: l’agenzia Onu per i rifugiati palestinesi è storicamente infiltrata da Hamas, dalle sue scuole sono usciti i capi terroristi di almeno tre generazioni, i suoi maestri inneggiano alla jihad nei loro social. Ma le evidenze di un’azione criminale diretta dei presunti operatori umanitari sarebbero stavolta così pesanti da indurre persino il timido António Guterres (il segretario generale che in qualche modo ha contestualizzato il 7 ottobre sostenendo che «non è caduto nel vuoto») a definirsi «inorridito».
La banalizzazione e il fraintendimento della Shoah possono insomma nascondere altro, ben di più e di peggio. E la perdita di ruolo delle Nazioni Unite, sempre più palese dopo la crisi ucraina e questa mediorientale, il suo essere vieppiù nelle mani del cosiddetto Sud globale egemonizzato da dittature e teocrazie, è una pessima notizia perché ci rende più soli. E più che mai responsabili d’una parola di verità. Il Giorno della Memoria non serve agli ebrei, loro si ricordano benissimo ciò che hanno passato: «Per me è 365 giorni l’anno» ha detto Liliana Segre. No, quel giorno serve a chi ebreo non è, per capire, partecipare. Inquinarlo come è stato fatto quest’anno è un crimine contro l’umanità: la nostra.