Corriere della Sera, 27 gennaio 2024
Quando Arbasino fulminò Strehler
Sempre di più ci manca Arbasino. Ci mancano sempre di più le sue cronache di viaggio e delle mostre, le sue critiche teatrali, le sue prose civili sul «Paese senza». E quindi benvenuto questo Arbasino curato da Andrea Cortellessa e pubblicato da Electa nella collana A/Z (pagine 328, e 35): ampia raccolta di testi di ogni tipo e di ricordi dovuti ad amici ed estimatori dello scrittore, con l’aggiunta di tre sue lunghe interviste. Rivive in queste pagine tutto quanto fece di Alberto Arbasino uno dei più importanti protagonisti della nostra modernità culturale: cittadino del mondo come nessun altro, ma a suo modo pure conoscitore come pochi di tutti i tic, i costumi e i vizi dell’umanità italiana. Ci mancano le sue «casalinghe di Voghera» e le sue «gite a Chiasso» come le sue battute, quasi sempre crudelissime, una delle quali ricorda qui lui stesso in una vecchia intervista: allorché per sbeffeggiare il Galileo di Strehler che evidentemente non gli era piaciuto per niente, diede al suo pezzo un titolo fulminante: «Da Galilei a Giovannini».
L’istituto affatto artificiale delle Regioni ha ucciso o perlomeno messo in ombra «la provincia», quel piccolo mondo antico costituito da un contado stretto intorno alla città capoluogo. Roccaforte del localismo italiano e cuore delle tradizioni, la provincia, anche se viva e vitale assai più al Centro-Nord che al Sud, ha rappresentato l’emblema di un Paese che tiene sempre laddove lo Stato ci riesce poco o quasi mai. Di questa «Italia che cantava, lavorava e faceva figli», di questa scena elettiva più che di persone di personaggi, Michele Brambilla nel suo In provincia (Aragno editore, pagine 98, e 15) rievoca l’impareggiabile ricchezza umana attraverso ricordi, bozzetti, aneddoti dal vero, uno più gustoso dell’altro. Ci restituisce così tutto il sapore e il valore di un mondo che in gran parte abbiamo perduto. Insomma un piccolo libro sempre suggestivo, a tratti commovente, che si legge d’un fiato.
In un volume ancora e sempre sul fascismo (Totalitarismo 100. Ritorno alla storia, Salerno editrice, pagine 208, e 21) Emilio Gentile cerca ancora una volta di dimostrare la sua nota tesi (peraltro contestata, come lui stesso ammette, da molti studiosi) che vede nel regime mussoliniano un regime totalitario, e cioè, se le parole hanno un senso, più o meno analogo a quello nazista o staliniano. Ma per dimostrare il suo assunto, mi pare, egli dovrebbe ricostruire la vita quotidiana nell’Italia fascista, mostrarci l’esistenza in essa di una oppressione feroce come quella esistente nella Germania hitleriana o nella Russia di Stalin, di un controllo soffocante e assoluto sulla vita intellettuale, culturale e artistica, su ogni più minuto aspetto della realtà. Non già, come fa in queste pagine, accumulare decine e decine di citazioni di antifascisti che dal 1920 al 1926 denunciano, coniando un nuovo termine, il carattere «totalitario» del regime. Che però – risulta chiarissimo – per essi non è che sinonimo di un inedito regime a dittatura di partito. Caratterizzata da violenza e galera, certo, ma cosa ben diversa da Dachau, da Auschwitz o dal Gulag di là da venire.