Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2024  gennaio 27 Sabato calendario

Intervista ad Antonella Ruggiero

Sognava di diventare una pittrice. Una soffitta, grandi finestre. «Invece un giorno ho incontrato i ragazzi». A vent’anni compiuti, Antonella Ruggiero non aveva mai cantato. «Non davanti a un pubblico, qualcuno che mi giudicasse. Qualche motivetto in casa». Quel concerto della Premiata Forneria Marconi al cinema- teatro Eden di Cornigliano a Genova: è il 1972. «Ci vado: un amico mi presenta un paio di musicisti dei Jet, complesso genovese. “Questa ragazza ha una voce pazzesca”. Lo tiro via per un braccio: “Lascia perdere”. Loro si incuriosiscono: “Suoniamo nel fine-settimana. Vuoi provare?”. Non mi ricordo neppure dove». Non importa. Va lassù, prende in mano il microfono. E il mondo all’improvviso si ferma.
Cosa ha cantato?
«Without you,del gruppo inglese Badfinger, portato al successo internazionale da Harry Nilsson. EYou’ve got a friend,di Carole King».
Li ha convinti. Sono nati i Matia Bazar. Chi è Matia?
«Sono io. Volevo uno pseudonimo neutro, non so perché. I discografici hanno scelto Matia. Bazar? Era un mercato, un arcobaleno di teste e gusti diversi: ognuno la pensava in maniera diversa».
“Stasera che sera”, “Per un’ora d’amore”, “Che male fa”, “Cavallo Bianco”, “Ma perché”, “Solo tu”, “C’è tutto un mondo intorno”: la storia della musica italiana.
«Anni bellissimi. I ragazzi. Per me era tutto istintivo, semplice: nulla di programmato. Indipendenti, uniti dalla musica. Ero la sola donna, mi sentivo come loro. I viaggi: il mio premio, il privilegio di conoscere il mondo».
Uno dei tanti posti che le è rimasto dentro.
«Mosca, la piazza Rossa e le vetrine tristi dei pochi negozi, le code infinite. Un’umanità scomoda, la vita dei lavoratori della mia Genova del porto, dell’Italsider. Commovente».
In Giappone ha cantato con un tipo coi baffetti.
«Inizio degli anni Ottanta. A Tokyo finiamo alla festa di uno importante.
Con Freddie Mercury: simpatico, piacevole, rilassato. È stato divertente».
La vittoria al Festival di Sanremo con “E dirsi ciao”, poi due successi internazionali: “Vacanze Romane”, “Ti Sento”. Ma nel 1989 ha detto basta: perché?
«Volevo fermarmi, ripulire la mente.
Li ho avvisati un anno prima con una lettera. L’ultimo concerto a Milano.
Niente lacrime, abbracci: non volevo si trasformasse in un’opera tragica.
Una cosa è bella fino a quando non realizzi che potresti diventare una macchina. Sapevo che un giorno sarei tornata alla musica. È accaduto 7 anni più tardi».
La gente associa ancora i Matia Bazar al suo volto alla sua voce.
Magari un giorno sarete di nuovo insieme.
«No. Ma siamo rimasti amici. Hanno accettato l’idea che il successo non mi poteva bastare. Due ci hanno lasciato: con gli altri ci siamo visti al loro funerale. Da un paio d’anni mi risento con Carlo Marrale: il tempo è rimasto sospeso».
Ha una voce incredibile, i suoi brani fanno parte della vita di tante persone: come si vive una fortuna così?
«Un dono. Poi uno decide di spenderlo in un modo o in un altro. Se sei preda del tuo ego, se cerchivisibilità e denaro, rischi l’alienazione: come è successo ad Amy Winehouse. Per me, la musica è sempre stato un modo per aprirmi agli altri. Non la vedi, non la tocchi.
Ma la senti. Ti attraversa».
Da solista due volte seconda a Sanremo: con “Amore lontanissimo” (1998) e “Non ti dimentico” (1999), scritta insieme a suo marito – e produttore – Roberto Colombo. Poi, ancora musica. Ma lontano dai riflettori.
«La voce negli anni migliora. Ma al massimo, una mezz’oretta di vocalizzi a bocca chiusa prima di un concerto. Meglio vivere quel che fai: affrontare le cose con curiosità.
Immergersi. Musica folk, sacra. Le bande, i cori di montagna, l’elettronica. Tra poco uscirà un nostro lavoro a dir poco surreale, che adoro».
Le sue canzoni più belle.
«Sono affezionata a due pezzi poco conosciuti: Niente di noi – Il canto dei Catari,tratto da Quando facevo la cantante. EAve Maris Stella Idi Mark Thomas, tratto da Cattedrali,registrato nella Cattedrale di Cremona».
Cosa pensa dei talent?
«Non li guardo. Mi dicono ci siano giovani con voci straordinarie, trovo mostruoso che non gli si dia la possibilità di esprimere quello che hanno nel cuore: se non vincono, addio. E l’arte, la lasciamo andare via? Sono però felice per i Måneskin: ho letto che hanno cominciato insieme, sulla strada. Non si sono fatti manipolare dalla mega-fabbrica».
Il Festival di Sanremo?
«Non più. Magari un duetto, se me lo chiedessero, con qualcuno con cui posso avere delle affinità: ma chi? Lo vedrò, però solo le prime canzoni, poi vado a dormire. Mi alzo presto. E sogno di essere una pittrice, in una soffitta».