il Giornale, 26 gennaio 2024
Intervista Stefano Mazzotti
«Di solito si pensa che la scoperta di una nuova specie sia qualcosa che accadeva nell’Ottocento, ma non è vero: ancora oggi non conosciamo quasi nulla della diversità della vita sulla Terra». E ci sono zoologi come Stefano Mazzotti che lavorano per metterla in luce, raccontarla e preservarla: Meravigliose creature (il Mulino, pagg. 254, euro 18; in libreria da oggi) è un saggio che parla proprio di questa realtà, delle esplorazioni del XXI secolo, ed è pieno di sorprese. Mazzotti dirige il Museo civico di Storia naturale di Ferrara e fa ricerca, sia sulle collezioni («Nei musei esistono moltissimi campioni, ancora da studiare, anche dell’Ottocento, che possono essere analizzati grazie alle nuove tecnologie: queste collezioni hanno un enorme valore») sia sul campo: come quando è andato sulle Ande tropicali del Perù, nel Parco nazionale di Yanachaga-Chemillén e ha scoperto... una nuova specie di rana.
Stefano Mazzotti, come è successo?
«Quando siamo entrati nel Parco era ancora in parte inesplorato: non si conoscevano tutte le specie di animali e piante presenti. Noi avevamo deciso di concentrarci sugli anfibi e una notte, girando con la pila frontale, ci siamo imbattuti in questa rana, che poi abbiamo descritto, la Pristimantis leucorrhinus».
Scoprire una nuova specie è una cosa straordinaria, però in realtà, come spiega nel suo libro, succede spessissimo.
«È così. Uno studio di riferimento stima che il 91 per cento delle specie degli oceani e l’86 per cento di quelle delle terre emerse siano ancora sconosciute: c’è moltissimo lavoro da fare. Anche perché i tassi di estinzione ci fanno pensare che riguardino anche specie che non sono state ancora scoperte dalla scienza ufficiale, specie mai viste, e che rischiamo di non vedere mai».
Il concetto di «specie» è tutt’altro che univoco e qualcuno vorrebbe eliminarlo: perché?
«È un nodo spinoso della biologia, mai risolto. È difficile ottenere una singola definizione, soprattutto oggi, ma dobbiamo accettare un compromesso, perché è un concetto che ci serve: se non diamo un nome a una specie è difficile cercare di salvarla, soprattutto nei Paesi tropicali».
Si può dare qualche numero?
«La variabilità è estrema, innanzitutto per questo disaccordo sulla definizione di specie; poi perché ci sono alcuni gruppi iperdiversi e poco studiati; infine, il tassonomo è un mestiere in grave crisi: mancano le persone che sappiano riconoscere le specie. Detto ciò, la stima di riferimento parla di circa 8 milioni di specie sulle terre emerse, solo per gli animali; con piante e funghi, dieci milioni. Ma per alcuni è una cifra molto sottostimata: chi studia funghi e batteri ritiene possano essere centinaia di milioni...»
E nel mare?
«Praticamente non conosciamo nulla. Basta andare oltre i 3-4mila metri di profondità che è un altro pianeta. Si trovano pesci anche a 8mila metri di profondità: per esempio nella Fossa delle Marianne sono stati scoperti i pesci lumaca, che sono molto interessanti anche per la medicina, perché hanno un sistema osseo praticamente di gomma e sono anemici, per resistere alla pressione e alla carenza di luce e ossigeno».
Quante specie si scoprono?
«Tantissime. Nel 2009 siamo arrivati a 19mila in un solo anno: la metà erano insetti; fra i vertebrati, la metà erano pesci. E poi ci sono le piante: se ne scoprono circa duemila ogni anno, anche in Italia, dove negli ultimi due anni sono state descritte tre specie nuove di piante da fiore. L’Italia è uno dei Paesi con più biodiversità in Europa, il primo per il numero di anfibi, e una delle regioni più ricche è l’Abruzzo».
Che altro si scopre?
«Mammiferi. Scimmie, perfino. È stupefacente... In Myanmar per esempio è stato scoperta una scimmia di grosse dimensioni, un rinopiteco senza naso che vive a tremila metri di altitudine, nelle foreste. E in Brasile hanno trovato una scimmia che fa le fusa come i gatti, quando interagisce».
Quali sono i «punti caldi» della biodiversità?
«I cosiddetti hotspot sono il Borneo, la Papua Nuova Guinea, l’Amazzonia, in assoluto. Poi ci sono le montagne della Tanzania, dove hanno trovato un camaleonte piccolissimo, grande come un seme di girasole, che si contende il titolo del vertebrato più piccolo del mondo con un pipistrello. Sempre in Africa hanno scoperto una nuova specie di anguilla elettrica, portando a tre il totale».
E a Papua?
«Il vulcano del Monte Bosavi è un’icona: è spento da duecentomila anni e, prima del 2000, non c’erano mai state spedizioni, perché persino gli indigeni stanno a distanza. Gli studiosi sono entrati nel vulcano – che ha un diametro di 4 km e falde che lo chiudono alte uno – e hanno trovato una nuova specie di ratto gigante, che si arrampica sugli alberi: siccome non era abituato agli uomini, non aveva paura e dava confidenza...».
I luoghi più inesplorati?
«Le banchise polari. Si scoprono ecosistemi mai visti: meduse, celenterati, una comunità di attinie bianche che vivono a testa in giù...».
Altre sorprese dai mari?
«Il polpo dumbo, che ha queste pinne/orecchie per spostarsi nell’acqua. E il granchio yeti, che alleva comunità di batteri sulle chele, dall’aspetto di una pelliccia; ogni tanto poi ripulisce le chele e si mangia i batteri, che gli forniscono energia».
E fra le piante?
«Le orchidee sono il gruppo più numeroso: sono gli insetti delle piante. Una delle scoperte più interessanti è avvenuta in Malesia e riguarda una nuova specie di rafflesia, una pianta parassitaria che puzza come un cadavere – infatti è chiamata pianta cadavere – di cui è visibile soltanto il fiore, gigantesco e carnoso. Pensi che la rafflesia fu descritta da un esploratore italiano, Odoardo Beccari, che andò in Indonesia nell’Ottocento: si pensava non ne esistessero altre, e invece...».