La Stampa, 26 gennaio 2024
Intervista a Beppe Savoldi
Due miliardi di lire. Uno scandalo, nel 1975. Mai un calciatore era stato pagato tanto e sconcertava che lo facesse il Napoli, espressione d’una città economicamente depressa: l’onorevole Sanza presentò un’interrogazione parlamentare e i sindacati denunciarono che metà cifra sarebbe bastata per pagare i netturbini senza stipendio da mesi. Beppe Savoldi, professione centravanti, si ritrovò così nell’occhio del ciclone, ribattezzato O Marajà e invece lambito solo dalle polemiche, non dalla pioggia di banconote: «Il presidente Ferlaino trattava con il Bologna – racconta -, io non avevo voce in capitolo. E comunque i soldi non mi interessavano, pensavo al campo, ai gol e al sogno scudetto: il Napoli era arrivato secondo e aveva scelto me per il salto di qualità».
S’era parlato di Juventus...
«Non s’era parlato, era fatta: il dottor La Neve mi aveva chiamato per fissare le visite. Credo dovessi prendere il posto del mio amico Anastasi, non ho mai capito bene perché saltò tutto. C’era stato un pourparler anche con la Roma: incontrai il presidente Anzalone ad Arezzo».
Si narra che nei giorni caldi dell’interrogazione e degli scioperi cercò tranquillità a Monghidoro, a casa di un altro amico: Gianni Morandi.
«Non avevo bisogno di rifugi, ero tranquillo. Con Gianni capitava di far serata, lui suonava la chitarra e io cantavo: sa che ho inciso due dischi? “Tira... goal” ha venduto 80.000 copie, la mettevano al San Paolo prima delle partite».
Un successone...
«E un colpo di spugna sulle polemiche. Gli abbonamenti del Napoli andarono a ruba, a conferma che i 2 miliardi erano investimento e non follia, e gli abbonati comprarono il 45 giri».
Lo scudetto rimase un sogno.
«Non andò come pensavamo, ma furono anni bellissimi».
Uno scudetto, in casa Savoldi, però c’è stato...
«Mamma Gloria, nel 1946, vinse il primo campionato italiano di pallavolo: la fabbrica di bottoni in cui lavorava, per consentire di fare un poco di movimento alle ragazze sempre chine sui macchinari, aveva allestito un campo in cortile e lì sbocciò l’Amatori Bergamo. Era orgogliosa, ma non ne parlava mai: in famiglia eravamo tutti così, poche parole e nessuna esaltazione».
Da bambino ha praticato tanti sport, però non ha seguito le sue orme...
«All’oratorio di Santa Maria Immacolata, nel cuore di Bergamo, nessuno aveva pensato di alzare una rete. C’erano i canestri appesi e le porte, in estate organizzavano le Olimpiadi di atletica: a me piaceva tutto e me la cavavo in tutto, diventai anche campione provinciale di salto in alto».
Scegliere è stata dura...
«Continuavo a giocare a basket nell’Alpe quando già ero tesserato con l’Atalanta che mi aveva preso dal Ponte San Pietro, Interregionale. Una società non sapeva dell’altra, mi divertivo e gli allenamenti doppi non mi pesavano: trascuravo la scuola, ma sinceramente non ero portato».
Debuttò in prima squadra a diciotto anni.
«A Verona in Coppa Italia, partita bloccata sullo 0-0: Puricelli mi fece entrare e nel finale segnai il gol della vittoria».
Dopo tre stagioni, andò al Bologna.
«Una città incredibile, aperta, accogliente: sette anni belli e tanti gol nei miei ricordi. Andavo a vedere il basket: nella Fortitudo c’era Arrigoni che giocava con me all’oratorio».
C’è chi sostiene che la provincia l’abbia limitata...
«Non ho rimpianti, sono contento di ciò che ho fatto. E comunque, ripeto, a quei tempi noi calciatori non potevamo dire di no».
A Napoli il grande salto.
«Le polemiche non si placavano, ma fui accolto come un re. La prima immagine è la folla alla stazione di Mergellina: ero atterrato a Roma e avevo dormito a casa di Janich, il dg, la mattina prendemmo il treno pensando di sviare i tifosi, e invece erano lì ad aspettarci».
Si camuffava per scoprire la città...
«Napoli, al di là del paesaggio ha vestigia e monumenti stupendi. Ancora oggi, quando torno, resto incantato: ho appena rivisitato l’anfiteatro di Santa Maria Capua Vetere».
Divora la storia anche attraverso i libri.
«Non leggo romanzi, mi hanno stancato, e non vedo film: troppa fantasia. Adoro scoprire il passato di popoli, città e Paesi, conoscere la vita di grandi personaggi».
Legge soltanto o scrive?
«Poesie. In dialetto bergamasco».
Rapporto con il web?
«Lo uso per forza di cose. Nessun problema, per dire, con mail e messaggi, ma preferisco, quando possibile, guardare le persone negli occhi».
Dal web apprendiamo che saltava più di Ronaldo...
«Hanno fatti calcoli in rapporto alla statura: lui si stacca da terra di 50 centimetri, io mi alzavo di 80. Ero alto 1,75, adesso mi sono un po’ accorciato».
Ha segnato 232 reti: ne manca una clamorosa...
«Ascoli-Bologna,1975: la palla varcò la linea, ma un raccattapalle la rimandò in campo con un calcio e ingannò l’arbitro. Non mi arrabbiai, sorrisi: facile, avevo fatto due gol e vinto la gara. Però mi costò la classifica dei cannonieri».
Compensò un anno dopo...
«Saltai su un cross, di testa non potevo arrivarci e deviai in porta di pugno. Il direttore di gara non se ne accorse: dovevo andare io a denunciarmi?»
Dicono che in Nazionale abbia giocato poco perché non apparteneva a un top club.
«Non credo ai pregiudizi anche perché ricevetti la prima convocazione ai tempi del Bologna. La verità è che all’epoca c’erano fior di attaccanti, non come ora che siamo stati costretti a chiamare un oriundo in Argentina. Detto con il massimo rispetto».
La carriera da allenatore è stata meno luminosa.
«Penso di aver peccato anche di presunzione, non mi sono mai legato a un procuratore: ero convinto che bastasse dimostrare di avere qualità tattiche e gestionali. A Spezia e Siena non sono stato confermato pur avendo portato in alto due squadre ereditate al penultimo posto. Ho detto basta e vissuto una bellissima esperienza da opinionista».
Le piace il calcio di oggi?
«Non mi riconosco più: il mio calcio era fatto di sentimenti, rapporti, attaccamento a società e città. Oggi vedo gente che cambia per i soldi: ma un fuoriclasse che ama il pallone, con che spirito va in Arabia?»
Suo figlio Gianluca è stato attaccante, ha giocato anche in Serie A ma non ha sfiorato i suoi livelli: pensa che il suo grande passato possa averlo penalizzato?
«Sicuramente può essere stato condizionato dai paragoni, ma essenzialmente non ha avuto fortuna: nel momento migliore ha pagato il fallimento del Napoli, poi ci si sono messi gli infortuni».
Continuerà la dinastia? I suoi nipoti giocano?
«Tutti: Lorenzo di 12 anni, Ludovico di 10 – si chiama quasi come mio papà: lui era Lodovico – e Giorgio di 8, il piu appassionato». —