La Stampa, 26 gennaio 2024
Traditi dalla traduzione
Poche settimane fa, il New Yorker ha pubblicato un lungo articolo intitolato “La scrittrice che ha ispirato Elena Ferrante”. Chi era? Sorprendentemente si trattava di Elsa Morante, il cui Menzogna e sortilegio è appena uscito in inglese in versione integrale. La riscoperta di un’autrice canonica come se fosse un segreto ben custodito può far sorridere, ma non deve sorprendere: di recente lo stesso è accaduto, solo per fare due esempi, con Natalia Ginzburg e Marina Jarre, tradotte rispettivamente in otto e sette Paesi in seguito alle edizioni americane.
Non deve sorprendere soprattutto perché lo stesso accade in Italia con le opere canoniche di altri Paesi. La trilogia di Copenaghen pubblicata negli anni Sessanta da Tove Ditlevsen, una delle più grandi scrittrici danesi, è stata edita da Fazi nella traduzione di Alessandro Storti solo in seguito all’uscita in inglese. La vegetariana di Han Kang è uscito per Adelphi a cura di Milena Zemira Ciccimarra dieci anni dopo il successo in Corea, come conseguenza della sua “scoperta” in America. È un effetto dell’ambizione universale della cultura angloamericana di cui scrivevo in queste pagine domenica 14 gennaio. Se per molti versi la letteratura statunitense non è più centrale come vent’anni fa, quando il mondo intero leggeva David Foster Wallace e Jonathan Franzen, esiste un senso in cui lo è ancora: si trova sempre più spesso a fare da punto di contatto fra letterature nazionali altre.
Questo è indubbiamente un fenomeno positivo: gli editori – specialmente quelli indipendenti – non possono avere competenze su tutte le culture del mondo. Attraverso il solo inglese l’editoria statunitense mette in comunicazione letterature lontane, come un collettore o come un centro da cui passano tutte le strade che collegano le varie periferie.
D’altro canto, la selezione di cosa pubblicare negli Stati Uniti rispecchia gli interessi del pubblico statunitense, che non sono necessariamente i nostri: una letteratura che si percepisce come universale sarà più incline a imporre i propri canoni alle altre. Proprio come il romanticismo tedesco, all’epoca cultura dominante d’Occidente, teorizzava che le traduzioni migliorassero gli originali perché li purificavano dagli accidenti della lingua, così l’editoria statunitense ha sviluppato una tendenza interventista e “migliorativa” che appare molto lontana dall’approccio italiano alla traduzione.
A volte questa tendenza ha risultati ottimi. Adelphi ha deciso di tradurre La vegetariana dall’edizione statunitense anziché dal coreano: la scelta, sorprendente per un editore tanto scrupoloso, è giustificata dal fatto che la versione inglese risultava particolarmente efficace e limpida anche a detta dell’autrice Kang, più elegante persino dell’originale. Similmente, la grecista Emily Wilson da anni sta portando avanti un visionario e ambiziosissimo lavoro di ritraduzioni omeriche, con un approccio al contempo attualizzante e fedele che è difficile da immaginare in una cultura di letteralità come quella italiana.
Ma un approccio libero può anche produrre risultati ambigui. Lo scrittore e traduttore Tim Parks ha dedicato molti studi alle traduzioni in inglese di Natalia Ginzburg, che ha trovato spesso un po’ ampollose, prive della leggerezza e dell’ironia che la caratterizzano. Secondo Parks questo dipende dal fatto che negli Stati Uniti la letteratura tradotta è una nicchia che ricerca un’aura di raffinatezza, anche a costo di imporla al testo originale (che è un po’ ciò che, con esiti diversi, è accaduto a Kang). A volte invece la libertà permette la normalizzazione di un testo anomalo, speciale: la recente versione inglese di Vogliamo tutto di Nanni Balestrini aggiunge la punteggiatura e le maiuscole alla lingua in presa diretta dell’autore. Ma l’informalità dei romanzi di Balestrini non era un vezzo sperimentale: nasceva dal progetto politico di restituire in letteratura l’oralità, era un modo di dare voce ai senza voce. In inglese questo si è perso.
Non sono solo pignolerie da puristi. Se le traduzioni statunitensi sono il canale attraverso cui la letteratura italiana viene scoperta in Danimarca, e quella danese da noi, un approccio interventista cambia il modo in cui i capolavori di un Paese saranno letti negli altri. Se l’unica strada fra due periferie è quella che passa dal centro, rischia di essere una strettoia.
Ma ci sono anche altre strade, e alcune partono proprio dall’Italia. L’Orma, casa editrice indipendente di Roma giunta alla fama per aver pubblicato Annie Ernaux molto prima che vincesse il Premio Nobel, ha aperto da due anni una sorella francese, Éditions L’Orma, votata alla molteplicità culturale che definisce l’identità europea. In questo sembra voler seguire l’esempio di Europa Editions, casa editrice con sedi a Londra e New York segnalata di recente da Publishers Weekly come una di quelle coi tassi di crescita più alti del mondo. A Europa Editions – fondata dai proprietari delle Edizioni E/O perché non trovavano un editore americano per Elena Ferrante – si deve la presenza internazionale di grandissimi autori e autrici di tutto il mondo, particolarmente italiani. Ma oltre al catalogo è il loro lavoro editoriale a rispecchiare un approccio più propriamente europeo, scrupolosissimo a livello testuale eppure improntato all’idea che la letteratura in traduzione possa essere molto più di una piccola, raffinatissima nicchia. Questa è la norma in Italia o in Francia: nei Paesi anglofoni no. Se, come scriveva Mizumura Minae in The Fall of Language in the Age of English, l’ambizione universale dell’inglese rischia di declassare le altre culture nazionali a “locali”, progetti di questo tipo offrono modelli alternativi, sia in termini di merito che di metodo: strade concentriche anziché radiali, più larghe. —