Avvenire, 25 gennaio 2024
Owens e le 13 medaglie ebraiche a Berlino 1936
In questo triste giorno della Memoria, in cui dobbiamo commemorare le tante, troppe vittime del mostro totalitario, una piccola, magra consolazione ce la fornisce la storia dello sport. Alle Olimpiadi hitleriane del 1936, oltre al leggendario “figlio del vento”, l’afroamericano Jesse Owens che conquistando 4 epici ori incantò persino il Führer, ci furono le 13 medaglie ebraiche. Una riscoperta, una delle tante che si ritrovano nel documentatissimo volume dello storico dello sport Sergio Giuntini, Storia dello sport ebraico in Italia e in Europa (Aracne. Pagine 121. Euro 15,00). Nella Germania nazista, dove già dal 1933 con l’editto del 23 marzo si riconosceva il potere dittatoriale di Hitler, erano di fatto in vigore le leggi razziali: gli ebrei erano maltollerati, alla stregua dei rom, dei disabili e di tutti coloro che non rispecchiavano l’ideale ariano e quindi andavano “purgati”. Sul fronte sportivo il modello ideale era quello del mito eroico e atletico di Sparta. Lo sport nazista infatti si ispirava all’antagonista di Atene, alla fiera e indomita città stato di Sparta che tra il 720 e il 756 a.C vinse 57 dei 71 titoli messi in palio negli antichi Giochi di Olimpia. Fu quasi una risposta ateniese dunque a Berlino il trionfo del nero americano Owens e quello di una mezza dozzina di campioni dell’antesignano “black power”, da Ralph Metcalfe (suo compagno nella staffetta 4x100) fino a Cornelius Johnson, campione olimpico del salto in alto. Lo scrittore ebreo Alfred Kerr nell’occasione compose Nazi-Olympyade
dileggiando pericolosamente il Führer «che geme» perché «L’Olimpiade sembra proprio come lo stato dei francesi, ebreizzata e negrizzata». A Owens di ritorno negli Stati Uniti quelle “negrizzazione” in terra nazista gli valse solo l’indifferenza del presidente Roosvelt: nell’albergo di New York in cui il campione venne ospitato gli fu riservata l’uscita dal retro, come si usava fare con i «negri». Il riconoscimento presidenziale (una medaglia celebrativa) gli arrivò postumo nel 1976, quando anche i campioni olimpici di Messico ’68, i “Black Panthers” Tommie Smith e John Carlos avevano concluso da un pezzo l’opera di demolizione del mito Owens, etichettandolo sprezzanti come lo “Zio Tom”, colpevole di “filohitlerismo”, per non aver denunciato abbastanza l’orrore della Germania in cui si sarebbe macchiato stringendo la mano al boia nazista. La prova provata di quello scatto che ritrae Owens che stringe la mano a Hitler non esiste, mentre restano le lettere del tedesco Luz Long, argento nel salto in lungo nel ’36, in cui riconosceva l’aurea immensa del campionissimo al quale scrisse anche nei giorni bui della guerra. Long cadde eroicamente nella battaglia di Cassino, 14 luglio 19434, e nell’ultima missiva chiedeva all’amico americano: «Caro Jesse, un giorno la nostra storia, ti prego di raccontarla a mio figlio». Promessa mantenuta, allaa fine della guerra Owens volò in Germania in cerca di quel figlio, Karl Long, il quale lo volle con sè, al tavolo, il giorno del suo matrimonio. Un lieto fine originato da quelle Olimpiadi che invece furono l’inizio della soluzione finale. Giuntini in una precedente pubblicazione ricordava che tra i circa sei milioni di vittime della Shoah non andava dimenticato il «martiriologio sportivo provocato dal nazifascismo». Questo causò la morte di «60mila atleti, di cui 220 di alto livello». Prima che calassero le tenebre su molte di quelle esistenze prestate allo sport olimpico, ci furono lampi di gioia e momenti di gloria, come quelle 13 medaglie ebraiche «13 bocconi ancora più amari da digerire per Hitler». E potevano essere quindici, se il presidente del Cio americano, Avery Brundage non avesse posto il veto ai due staffettisti ebrei Marty Glickman e Sam Stoller, i quali se avessero preso parte a quelle Olimpiadi sarebbero sicuramente saliti sul gradino più alto del podio assieme a Owens. Le quasi dimenticate 13 medaglie conquistate da atleti ebrei furono 9 d’oro, tre d’argento e un bronzo, in rappresentanza di Ungheria, Belgio, Polonia, Stati Uniti, Canada, Germania e Austria.
Ilona Elek e lo sterminio degli ungheresi
Ilona Elek fu il simbolo di quella squadra ungherese di scherma che pagò il maggior dazio venendo interamente sterminata dall’Olocausto. Ilona, diplomata al conservatorio vinse l’oro nel fioretto salendo su un podio di sole schermitrici ebree: l’austriaca Ellen Preiss e la tedesca Helene Mayer. Alla Elek, prima campionessa olimpica ungherese, durante le persecuzioni razziali venne impedito di gareggiare, ma tornò in pedana conquistando ancora l’oro a Londra nel 1948 e chiuse con l’argento a Helsinki nel ‘52. Un’altra atleta ebrea ungherese Ibolka Csak alzò le mani al cielo sopra Berlino: oro nel salto in alto con 1 metro e 62 centimetri. Due anni dopo Ibolka arrivò seconda agli Europei di Parigi ma il titolo venne revocato a vantaggio della tedesca Dora Rajten che si rivelò un uomo e di fatto aprì lo scandaloso capitolo dei cambi di sesso, perpetrato sugli atleti tedeschi dai laboratori nazisti fino a quelli della vecchia Ddr. La Csak scampò alle persecuzioni razziali, cosa che non riuscì a fare Gyorgy Brody, portiere della nazionale di pallanuoto ungherese, il quale venne deportato e conobbe la dura umiliazione dei lavori forzati. L’altro pallanuotista ebreo, Miklos Sarkany, a Berlino fece il bis dopo aver vinto l’Oro alle Olimpiadi di Los Angeles ‘32. Il suo nome è nell’elenco dei salvati, Miklos ha finito i suoi giorni a 90 anni lasciando Budapest per Vienna. Endre Kabos, schermidore che fu allievo del nostro Italo Santelli, oro nella sciabola individuale e a squadra, venne invece deportato nel lager di di Felsohangony. Kabos riuscì a tornare a Budapest ma la sua, a 38 anni, fu una “morte misteriosa”: forse era scappato dal campo di prigionia e in un conflitto a fuoco rimase ucciso sul Ponte Margherita. Karoly Karpati che nella lotta strappò la medaglia d’oro al tedesco Wolfang Ehrl, fu arrestato e portato nel lager di Davidovka, in Ucraina. Ma Karpati sopravvisse alla Shoah e fu un testimone che fino alla morte, avvenuta nel 1996, potè raccontare le gesta di quella grande spedizione olimpica ungherese che riportò a casa 6 delle 13 medaglie ebraiche.
Il tradimento della Mayer e l’Anschluss austriaco
Sul podio del fioretto, dietro alla Elek salirono Helene Mayer e Ellen Preiss. La Mayer era una ebrea tedesca, allieva di un altro maestro italiano, Arturo Gazzera, ammirata dal campionissimo azzurro Nedo Nadi che per il fisico poderoso l’aveva paragonata a un «granatiere di Pomerania». E da ufficiale nazista, si comportò la Mayer che, tornata dagli Stati Uniti dove aveva studiato allo Scripps College, al momento della consegna della medaglia d’argento fece il saluto hitleriano. Un gesto di ingraziamento che non gli evitò di essere bollata dalla federazione come «sporca ebrea» per non aver regalato la medaglia d’oro alla Germania. Tutta la sua famiglia poi fu perseguitata, scampando in parte alla Shoah (lo zio Georg August Mayer morì nel campo di Terezine). La Mayer finì da “tedesca incompresa”. In Germania era nata anche Ellen Preiss che con la sua famiglia, padre ebreo e madre ariana, a 18 anni si trasferì a Vienna. La doppia cittadinanza austriaca-tedesca la fece escludere dai Giochi di Los Angeles, ma in compenso dopo il bronzo di Berlino ’36 ha gareggiato per altri vent’anni e dopo la guerra divenne professoressa emerita in una prestigiosa università viennese.
A Vienna visse e crebbe come sportivo Robert Fein. Autentico spirito olimpico, Fein è stato ginnasta, nuotatore e infine fece il passaggio al sollevamento pesi. Alzando 342,5 kg si era aggiudicato l’oro di Berlino, ma la giuria aveva già deciso: «Non può vincere un ebreo». Con la scusa che il suo peso corporeo era superiore a quello dell’egiziano Mohammed Ahmed gli venne negato il titolo olimpico. Il Cio riconobbe il torto subito da Fein, ma quella medaglia non è gli è stata mai restituita e dopo l’Anschluss, nel marzo 1938, fuggì da Vienna per non cadere in mano nazista. Ci riuscì, è morto nella capitale austriaca nel 1975.
Wajs, la discobola polacca e il Blitz belga
Jadwiga Wajs era la discobola di Polonia che per ben cinque volte, dal 1932 fino alla vigilia dei Giochi del ’36, stabilì cinque volte il record mondiale. L’argento ai Giochi hitleriani, in cui si impose la tedesca Mauermayer, fu l’inizio della sua fuga per la salvezza. Nel ’43 Jadwiga, assieme al marito venne arrestata dalla Gestapo, ma dopo la prigionia riuscì a tornare nella sua casa a Pabianice dove è vissuta fino al 1990.È andata bene anche al belga Gèrard Blitz, pallanuotista discendente da una dinastia di atleti olimpici di Anversa. A Berlino vinse il bronzo e alla fine del conflitto bellico è diventato un potente uomo d’affari. Trasferitosi a Parigi, Blitz fondò il “Club Mediterranee” e con gli anni ha sostituito la pallanuoto con la meditazione venendo nominato presidente dell’Unione Europea dello Yoga.
Football e basket Balter “the voice” d’America
L’unico ebreo canadese che si distinse a Berlino fu il cestista Irving Meretski. Vinse l’argento, perdendo in finale contro gli invincibili americani: una nazionale di basket composta solo da bianchi, in cui spiccava l a mente di Samuel Balter. Il mitico Sam, rimasto alla storia dello sport a stelle e strisce, oltre che come ebreo che la “fece sotto gli occhi di Hitler”, come giornalista sportivo dell’Herald Express di Los Angeles e poi telecronista. Balter è stato “the voice” del football americano. E quando ancora scendeva sul parquet alzò la voce attaccando il comitato olimpico americano per non aver condannato fermamente il razzismo e l’antisemitismo tedesco. Una denuncia che pose fine alla sua carriera, escluso da tutti i campi con sentenza Usoc. In compenso tutta l’America stimava ed rimasta sempre amica dell’olimpico Balter. E quel sentimento di vicinanza popolare era stato il vero trofeo a cui aveva ambito tutta la vita la leggenda Jesse Owens che prima di andarsene per sempre, nel 1980, scrisse: «Le medaglie d’oro col tempo si consumano, mentre le amicizie non si ricoprono mai di polvere».